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«Fu intorno al principio di dicembre del 2019 che io seppi dai telegiornali come la peste fosse tornata in Cina, dove già, e particolarmente a Guangdong, aveva infierito nel 2002 con il nome di SARS. Sembra che il governo avesse ricevuto delle informazioni precise su quello che accadeva in Cina; e si fecero parecchie riunioni per studiare il modo di impedire che la cosa arrivasse tra noi. Tutto però fu tenuto segreto; sicché presto quella voce si spense e la gente cominciò a dimenticarsene come se non ci riguardasse davvicino» [i corsivi sono frutto di mie modifiche arbitrarie].
Incomincia così o, meglio, all’incirca così uno dei più lucidi e spietati racconti di peste della storia della letteratura, ovvero quel Journal of the plague year che Daniel Defoe scrisse più di 50 anni dopo la Grande Peste di Londra.
Nel febbraio del 2020, durante l’esplosione in Italia della pandemia da COVID-19, ho ripreso in mano questo vecchio libro che avevo conosciuto al liceo e l’ho riletto avidamente, trovandovi delle incredibili analogie tra quella situazione e ciò che stiamo vivendo 350 anni dopo: le sottovalutazioni, i ritardi, le risposte sbagliate, a tratti crudeli, delle autorità, l’incoscenza e l’incapacità del controllo emozionale della tragedia da parte delle persone, la convivenza insopportabile con il terrore quotidiano, il conteggio dei morti e tanti episodi di pazzia, violenza, ma anche di solidarietà e resistenza.
Le similitudini tra quella peste e la recente pandemia sono tantissime e la mia goffa parodia scritta in esergo, lungi da voler essere in alcun modo satirica, irridente o critica nei confronti di alcuno, vuole essere solamente un artificio pseudo-letterario per rendere plastico il raffronto tra le due pestilenze (soprattutto per chi non avesse letto quel libro). In estrema sintesi: la minaccia di un moderno virus letale era assolutamente tangibile, ma, per scelte squisitamente politiche, non è stata presa in considerazione, come invece avrebbe meritato.
La lettura di questo testo, spesso declamato ad alta voce per vincere la solitudine della mia quarantena, mi ha suggerito l’idea di farne una trasmissione radiofonica e la mia militanza nel gruppo dei “collaboratori classici” di Radio Popolare mi ha spinto a costruire un “Labirinto musicale”, trasmissione di approfondimento della domenica pomeriggio.
Così passato al setaccio il romanzo di Defoe, operati i tagli opportuni per darne una lettura radiofonica, ho provveduto alla scelta dei segmenti di testo e delle musiche d’epoca da intrecciare al racconto.
Dalla memoria di ascolti passati e presenti mi sono venuti incontro musiche come la Marcia dalla Funeral Music for Queen Mary e il Lamento di Didone di Henry Purcell, così come la Sarabande e Zadok The Priest (l’inno dell’incoronazione dei reali d’Inghilterra tutt’ora in uso) di Haendel, autore di qualche anno successivo alla Peste, ma strettamente correlato alla cultura musicale e alla politica inglese del periodo. Poi ho vagliato il tardo-Rinascimento e Barocco inglese individuando in John Dowland e William Byrd altri due autori funzionali alla mia narrazione. Infine la Follia di Arcangelo Corelli e il vespro anglicano Fret not thyself dal Salmo 37 mi sono apparse come le migliori risorse da abbinare ad alcuni episodi specifici narrati da Defoe; la ripresa della marcia funebre di Purcell ad opera di Walter Carlos, la migliore catapulta temporale per creare un legame musicale con il nostro tempo.
Un’ora di racconto, per quanto arricchito da meraviglie musicali, può diventare molto faticosa all’ascolto e, sebbene molto coinvolto dalla lettura, complice lo stato d’animo indotto dalla tristezza che tutti abbiamo vissuto, mi preme chiarire che non sono un attore. Le mie letture sono il frutto della scelta di pochi take, senza prove o revisioni successive: i tempi non lo consentivano.
Anche a causa di questi limiti, ho costruito un ventaglio di effetti sonori, in parte facendo ricorso al web e montando anche 5/6 fonti diverse per ottenere un’unica “scena sonora”, in parte costruendoli artigianalmente: martellate, porte che sbattono, scavi sul balcone, urlo del cocchiere e altro sono tutti home-made.
Vorrei lasciare qui anche un’ultima considerazione, priva di ogni volontà assolutoria. Per produrre questa trasmissione mi sono avvalso unicamente di un cellulare, di una connessione internet e di una serie di programmi opensource, non potendo contare né su un microfono professionale, né su uno studio insonorizzato e nemmeno di un mixer, cose che mi avrebbero tutte reso più semplice il lavoro. Basti pensare che molte fasi di lettura sono state rese inservibili dall’intrusione di qualche rumore ambientale come le voci dei passanti sotto casa, il frigo che “scatarrava versi futuristi” o l’aspirapolvere dei vicini che partiva di soppiatto.
Detto questo, sono particolarmente fiero di essere riuscito a trasmettere delle emozioni forti, quanto condivise. E l’inaspettato numero di commenti che ho iniziato a ricevere a partire da un minuto dopo la fine della trasmissione (andata in onda il 19 aprile 2020), mi ha fatto credere che molte persone come me hanno condiviso a distanza una sorta di rito collettivo, che, molto laicamente, è servito a rimescolare i nostri animi turbati e, forse, anche a generare qualche riflessione in più sul senso delle nostre esistenze.
Michele Coralli
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