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Peter Eötvös, classe ’44, compositore ungherese nativo della Transilvania, è stato collaboratore di Karlheinz Stockhausen a Colonia e direttore dell’Ensemble InterConteporain dal 1979. Alcuni fortunati avranno avuto modo di apprezzarlo nel luglio scorso a Bologna come brillante direttore dell’Ensemble Modern al Festival Angelica, in un gradito quanto doveroso omaggio a Frank Zappa. I lavori di Eötvös, legati all’avanguardia europea post-Darmstadt, si caratterizzano per una spiccata predilezione all’aspetto teatrale e gestuale, attraverso il quale il linguaggio diviene evocativo. Nel caso di Chinese Opera (1986) tale profilo drammaturgico è evidente, non tanto nella volontà di descrivere o reinterpretare una tradizione lontana dagli orizzonti culturali di Eötvös, quanto in quella di rappresentare l’idea che il compositore ha di quella tradizione, non essendo sdegnate anche citazioni dalle tradizione popolare ungherese, seppur in secondo piano rispetto alla centralità sonora della sezione ritmica “orientaleggiante”, ricca di idiofoni. Shadows (1996), opera più recente in questa raccolta, cura in modo attento l’aspetto spaziale della perfomance con la suddivisione degli strumenti in quattro gruppi distanziati dai due strumenti protagonisti, un flauto e un clarinetto, dei quali i primi diventano delle immaginarie ombre sonore. Infine Stein (1985-90), brano centrale nella produzione di Eötvös, improntato all’improvvisazione controllata all’interno di una struttura puntillistica che crea continui chiaroscuri.
da: “Amadeus”, n.136, 2001 © Paragon / Michele Coralli
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