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Luci solo inizialmente livide e rarefatte per un suono invece ricchissimo di rimandi che partono dall’essenza interiore della musica di questo trio costituito dai russi Andrei Razin (piano), Igor Ivanushkin (contrabbasso) e Tatyana Komova (voce). Il loro “vaso di Pandora” libera un mondo fatto di suoni che ben sintetizzano quel jazz moderno che per sopravvivere a se stesso ha dovuto includere e sviluppare: certamente l’ammorbidimento post-free datato anni ’70, il ricorso a molti stilemi delle avanguardie colte a partire dall’antichissimo Stravinskij (in sintonia, tra l’altro, con moltissimi musicisti europei anche del passato), una propensione melodica che ben si sposa con le asprezze sempre molto controllate della libera improvvisazione, un gusto per la struttura che si contrappone dialetticamente al soundscape terso e corpuscolare che guarda al grande Nord geografico. Tanti quindi i colori e le predisposizioni mentali e creative di questo trio, ma su tutte in primo luogo vogliamo mettere in relazione la voce ampia e versatile della Komova con quella di una vecchia leva del canto contaminato come Meredith Monk, esplicitamente o implicitamente citata in un brano come Rite of Winter. In seconda istanza esaltare momenti come quello dell’infuocato rag-time finale, in cui si possono apprezzano completamente le capacità del trio nell’iniettare rinnovamento dentro radici ormai lontane, riproponendone un volto dall’evocativo fascino anche teatrale. Riprendere, rivedere e riproporre. Anche in Russia – e non solo nella musica – si guarda con insistenza al passato.
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