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Con questo “Skirting The River Road” sono due le raccolte che Robin Williamson ha messo insieme per illustrare il suo modo di interpretare la poesia di alcuni nobilissimi autori anglosassoni. Nel precedente “The Seed-At-Zero” si trattava dell’incommensurabile gallese Dylan Thomas e del poeta metafisico Henry Vaughan, in questo di Walt Whitman, di William Blake e del medesimo Vaughan. Gli immensi contorni culturali non cambiano affatto, aderendo Williamson ancora una volta a una delle migliori cerchie di poeti anglosassoni (entro cui potrebbero stare anche Eliot, Poe e Yeats). Basterebbe questa premessa per sottoscrivere questo atto d’amore nei confronti della poesia. Ma c’è di più.
Non si tratta infatti di uno di quei soliti tributi superficiali che periodicamente ci si affanna a compilare, per dare ragione di una qualche operazione culturale volta ad avvicinare l’opera di esimi poeti a un pubblico giovanile, come è stato fatto con il già citato irlandese William Butler Yeats. Sulla questione rapporti tra la musica e la poesia occorrerebbe rispolverare qualche trattato cinquecentesco di Zarlino o Vincenzo Galilei alla voce “monodia”, per capire che quello che spesso si fa oggi è un cantare sugli accordi, senza che tra parole e musica corra la minima relazione. Nella canzone standard la voce si perde in un tipo di espressività che non ricerca alcun legame con la poesia. Anche la prosodia non viene rispettata in quello che viene cantato, attraverso forzature degli accenti tonici o l’inserimento di terzine per includere sillabe fuori metrica. Così, chi si confronta con una poesia (opera artistica che già si sostiene di per sé) può correre il rischio di farne una canzone con tanto di ritornelli e ponti, che nella struttura poetica nemmeno esistono (come ad esempio ha fatto Van Morrison).
Ma Williamson conosce i suoi poeti e non ne forza le strutture, bensì le intona, le recita cantando, a volte le legge e basta. Intendiamoci, spesso il testo poetico assume il carattere di una ballata dal sapore arcaico, ma del resto anche le ballate avevano una struttura poetica fissa. Se in “The Seed-At-Zero” il compito di accompagnare la voce melismatica, ma anche dolcemente cedevole di Williamson, era affidato alla sua chitarra o alla sua arpa celtica, in questo caso la tavolozza dei colori diventa più variegata per merito dell’intervento di Mat Maneri al violino, Paul Dunmall ai sax, cornamusa, clarinetto, Åle Möller alla mandola, liuto, flauto, Mick Hutton al contrabbasso. Il risultato è che l’atmosfera intimista del primo album si perde a favore di un quadro a più voci. In secondo luogo, in mezzo a quel delicato aroma folk scoto-irlandese, che comunque apprezziamo su poesie che a quel mondo rimandano, si aprono squarci che riportano la mente al mondo del jazz e dell’improvvisazione. Anche se quindi preferivamo l’approccio precedente dell’ex-Incredible String Band, a lui va comunque ascritto il merito di mettere insieme 72 minuti di poesia e musica, capaci di fornire innumerevoli spunti di approfondimento.
La voce di Williamson inizia con un salto di sesta sulla parola “Joys!” Da The Morning Watch di Herny Vaughan, per finire sempre con Vaughan e la sua They Are All Gone into the World of Light, intonata nostalgicamente sull’arpa : “So some strange thoughs trascend our wonted themes, / And into glory peep”. Chissà se qualcuno in Italia saprà mai musicare in ugual modo le poesie di Ungaretti, Quasimodo o Montale?
2002 © altremusiche.it
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