Robin Williamson [Teatro Dal Verme, Milano, 7 ottobre 2010]

Foto: Niall Reddy
Michele Coralli

In un tardo pomeriggio milanese, che sa un po’ di happy hour, andiamo al concerto di una vecchia gloria del folk revival anni ’60 e ’70, quel Robin Williamson che ebbe l’idea di creare una delle formazioni più crepuscolari e difficilmente classificabili di tutto quel movimento. Si chiamava Incredibile String Band e, a dispetto di quel nome, non si faceva notare per le vertiginose evoluzioni virtuosistiche sugli strumenti a corda, bensì per una musica che – secondo le attuali inclinazioni tassonomiche – non riusciamo definire in altro modo che weird, un miscuglio cioè di tradizionalismo acustico, misticheria orientale e freakketonismo underground. Questo succedeva qualche stagione fa, nel frattempo molte cose sono cambiate. Il Williamson di oggi è un simpatico signore attempato, che si diverte con qualche ballata easy-folk, qualche gospel mirato al coinvolgimento del pubblico mediante chorus a presa istantanea e l’immancabile blues da tardo impero. Ci si aspetterebbe altro da uno che, non più tardi di una decina di anni or sono, ha infilato nel catalogo Ecm un disco bellissimo come “The Seed-at-Zero”, nel quale ripescava grandissimi poeti anglosassoni come Dylan Thomas, per rimestarli in una zuppa bardo-celtica di una modernità che assai raramente si vede da quelle parti. Al Music Club invece l’unico Dylan rievocato è il più celebrato Bob, indubbiamente meno visionario del poeta gallese, ma ancora INDISCUTIBILE per la generazione dei reduci degli anni ’60.

Non per noi, che, non sentendoci ancora tali, avremmo voluto vedere il Williamson della grande poesia, quella dei Thomas, degli Henry Vaughan, dei William Blake o dei Walt Whitman, ma anche quello dei mille strumentini, dell’arpa celtica e dei penny whistle. Ci si ritrova di fronte invece al Williamson globalizzato, cantante di cassetta giulivamente devoto al credo di Scientology, discretamente banale nel costruire scalette e grande amante della serenità e dell’amor di coppia senile. Quando il tutto sembra tendere inesorabilmente alla noia un paio di bis di classici come Painting Box e Matty Groves riequilibrano l’esibizione confidenziale, perfetta per il pubblico dell’happy hour. Ormai ci si salva solo a colpi di nostalgia.

novembre 2010 © altremusiche.it

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