Annie Whitehead: “Soupsongs, The music of Robert Wyatt”

Michele Coralli

E’ stato il concerto conclusivo della quarta edizione di Metropòli Jazz [Teatro Dal Verme, Milano, 24 settembre 2001] ma avrebbe potuto essere quello inaugurale per importanza e spessore della proposta artistica. Il pubblico si è ritrovato numeroso in una prestigiosa sede (quella del rinnovato Dal Verme), nonostante la sfortunata coincidenza delle performance di Mike Westbrook all’Auditorium e dei Roxy Music al Forum.

L’omaggio a Robert Wyatt, uno dei personaggi più seducenti della scena musicale di confine, che per anni si è mosso con assoluta tranquillità e noncuranza delle regole del mercato discografico, riesce a catalizzare l’attenzione non soltanto dei nostalgici, ma anche di quel pubblico curioso di accostarsi a scene meno rutilanti, ma non per questo meno suggestive. Sarà anche facile cercare nel passato i propri maestri per dare maggior credito alla propria proposta (cosa che, per inciso, fa anche Uri Caine), ma non si può fare a meno di notare che la musica di Robert Wyatt, quando viene ben compresa e assimilata, gode ancora di quella grazia seducente, capace di coinvolgere musicisti di estrazione diversissima (come nel recente “The Different You” messo in piedi da musicisti nostrani).

Il progetto Soupsongs, licenziato da Wyatt e fortemente voluto da Annie Whitehead, trombonista e arrangiatrice inglese, gode di quella leggerezza e di quella forza evocativa, rara nella gran parte dei rifacimenti dei classici. Dadaismo pop, avanguardia e jazz africano sono alcuni dei geni presenti nel DNA della musica wyattiana, necessari per dare linfa a quel patchwork meticcio che trova sua naturale collocazione nell’ensemble della Whitehead. Ian Maidman alla chitarra e voce (quasi imbarazzante nella somiglianza con l’inconfondibile timbro vocale originale), Larry Stabbins al sax tenore, Harry Beckett alla tromba, Janette Mason al pianoforte e tastiere, Steve Lamb al basso, Liam Genockey alla batteria e Julie Tippett, voce storica dell’avanguardia jazz. Mancava purtroppo l’altro mostro sacro Lol Coxhill, arruolato nel progetto ma assente dall’esibizione milanese. Il gruppo ha iniziato il suo rodaggio in occasione del Live & Direct Festival di Londra nel 1999, a cui ha fatto seguito la pubblicazione di un album doppio inciso da Jazzprint.

Con una performance senza timori reverenziali, l’ensemble snocciola una scaletta che si dipana dal leggendario Rock Botton (album datato 1974) fino al recente “Shleep” (1997). Ecco allora brani che i wyattiani più appassionati conservano nei recessi emozionali più profondi: Alifib, Sea Song (resa forse un po’ troppo launge dalla sinuosa voce della Tippett) e Little Red Riding Hood Hit The Road (che trova una rinnovata energia nell’esecuzione del gruppo e nei splendidi soli di Beckett, che evoca Mongezi Feza, e di Stabbins). Seguendo la cronologia discografica, fa capolino il più disteso “Ruth is Stranger Than Richard”, da cui è stato estratto tutto il Richard Side, che comprende la Muddy Muose, scritta in collaborazione con Fred Frith, che spinge la voce di Wyatt verso i registri sopranili, Soler Flares e 5 black Notes and 1 White Note, che aprono ampi spazi alle improvvisazioni del gruppo. Da “Old Rottenhat” vengono estratti Alliance e The Age of Self, che bene interpretano la disinvoltura politica di Wyatt, che per parlare di lotta di classe utilizza corde non estranee agli orizzonti espressivi del jazz più avvolgente. Il viaggio nel repertorio wyattiano si conclude con “Shleep”, album alla cui realizzazione ha preso parte la stessa Whitehead. Da quel lavoro vengono estratti l’iniziale Heaps of Sheeps, Free Will and Testament (qui il “clone-Maidman” si spinge quasi al plagio timbrico) e infine Sunday in Madrid.

Anche se nel suo inquadramento generale l’operazione Soupsongs può apparire manierista nel peggiore dei casi o semplicemente neoclassicista, non si può negarle la capacità di definire un repertorio sulla base della sua unità espressiva e artistica, riuscendo in ambiti “colti”, come si sta facendo in certi casi con Frank Zappa, a fissare l’attenzione sull’altro Novecento, quello collocato sulle linee di confine.


Tippett, Maidman, Whitehead, Khan, Beckett, Manzanera, Mason, Lamb, Genockey: “Soupsongs Live – The Music of Robert Wyatt” (Jazzprint, JPVP101CD, 2000)

Il doppio cd dedicato alla musica di Robert Wyatt si apre con un brano del trombettista sudafricano Mongezi Feza, Sonia, un delicato acquarello che sa di umido tropicale. Non è un caso. Di Africa come di jazz afroamericano la musica di Wyatt ne è intrisa. Le ragioni di questa contaminazione non sono solo da ricercare nelle giovanili infatuazioni per Parker o Mingus, ma anche nell’assiduo rapporto e di vicinanza con tutta quella schiera di jazzisti che arricchirono la scena londinese a partire dalla seconda metà degli anni ’60: da Mc Gregor a Moholo, da Parker a Coxhill, da Tippett a Feza. Forse sta proprio in questa ibridazione il fascino di quelle melodie che Wyatt estrae con la mano di un prestigiatore da una antiquata tastiera vintage e dalla sua voce unica. Alla fine doveva arrivare un disco che omaggiasse lo sfortunato artista di Bristol e così è stato. Il merito dell’iniziativa è da ascriversi allo stesso Wyatt e ad Annie Whitehead, trombinista nell’organico di “Shleep”.

Radunati i collaboratori usuali della Whitehead e alcuni nobili reduci come il Roxy Manzanera e Julie Tippett, l’occasione per la presentazione del progetto è stata colta nel 1999 per un concerto che Jazzprint ha deciso di pubblicare. Nelle oltre due ore di registrazioni si spazia su gran parte della produzione solista di Wyatt, da “Rock Bottom” in avanti, con una certa predilezione per il materiale di “Ruth is Stranger than Richard” (come l’iniziale Sonia). Splendide le prove della Tippett, una delle poche che riesce a catturare lo spirito wyattiano senza imitarlo (cosa che risulta inevitabile all’altro cantante, Ian Maidman). La Sea Song interpretata da Julie è di gran lunga superiore rispetto alla Alifib/Alife di Ian. In certi frangenti l’ensamble suona un po’ troppo blues (Soup Song), dribblando una certa ritmica jazzy che è marca tipica dell’ex batterista dei Soft Machine. Ma forse la vera cifra che manca in questo ensemble rispetto all’originale è quel sottile velo di tristezza trasfigurata in pathos che avvolge gran parte delle canzoni di Robert Wyatt, così come anche certe sue cover tradizionalmente solari come Caimanera o Yolanda. Per quanto forse di non facile eseguibilità, questa raccolta avrebbe goduto di un più nobile profilo anche con i brani più sperimentali, quelli del Wyatt patafisico: da The End of an Ear a Moon in June per arrivare al periodo Matching Mole, ambiti molto poco frequentati da chi si accosta a quei repertori. In alternativa ci rimangono quei dischi storici e imprescindibili, come tanta musica creativa di quel periodo.

maggio 2002© altremusiche.it

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