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Una valida definizione coniata da un illustre collega, che si riferiva proprio ai Curlew, proponeva il genere dell’avant-fusion, inteso come contaminazione jazz-rock con il mondo della sperimentazione e dell’avanguardia nel senso più ampio dei termini. Penso che tale ironica definizione si riferisse all’ansia da parte di molti musicisti e critici musicali di sperimentare nuovi incontri, di trovare nuove strade i primi, di inventarsi nuove tipologie e tassonomie i secondi. Ma il mondo della musica spesso non scopre nulla di nuovo, anzi, al contrario, il più delle volte, si rituffa nell’ovvio e nel già visto e sentito. A volte ancora, il ritorno al passato offre qualche piacevole sorpresa…
E oggi i Curlew ritornano con un nuovo CD che guarda indietro, agli anni Settanta, a quelle esperienze che portarono alla convergenza di generi e pratiche musicali. E non dico ciò con lo spirito della critica assetata sempre di novità ad ogni costo, bensì appurando con un certo piacere che a volte si assiste ad un ritorno a certi gusti progressive ancora molto apprezzati in giro. Mi riferisco a gruppi come i Soft Machine, quelli – in questo caso – del dopo-Wyatt, quelli della fissità dei giri di basso e dei lunghi assoli (i Curlew non si servono degli inconfondibili organi di Ratledge, bensì delle due chitarre di Chris Cochrane e di Davey Williams, che si suddividono democraticamente i canali sinistro e destro – e siamo assai distanti dagli ameni suoni delle chitarre fusion, mentre ammiriamo la scelta di suoni semplici e austeri, privi dei soliti stucchevoli multieffetti – e dei sassofoni di George Cartwright, compositore di alcuni bei temi presenti nell’album come “Fabulous Drop” o “August”.
Ma altri riferimenti giungono alla memoria durante l’ascolto: il Keith Tippett Group o i Nucleus di Jan Carr, anche se a volte si affaccia anche il punk zorniano o la ritmicità nevrotica dei Doctor Nerve, compagni di cordata dell’etichetta statunitense Cuneiform. L’energia rock (o meglio crossover), l’efficacia dei temi quasi cantabili nella loro plasticità, i timbri semplici, la mancanza di elettronica (ogni tanto è quasi un piacere) bensì la presenza di suoni veri e riconoscibili, la ritmica importante, ma mai gratuita nella volontà dimostrativa delle capacità vituosistiche (le scomposizioni o i ritmi impossibili, se fini a se stessi, lasciano sempre il tempo che trovano in certi lavori tesi a dimostrare più i limiti delle capacità umane che a esprimere contenuti artistici), l’affiatamento del gruppo e l’omogeneità del lavoro fanno di “Fabulous Drop” un ottimo disco, mai arrogante, mai superbo, bensì discreto e soffice, come certe macchine di una volta.
1998 © altremusiche.it
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