Keith Jarrett: “Paris / London Testament”

Michele Coralli
Keith Jarrett: “Paris / London Testament” (3 CD Ecm, 2130-32, 2009)

Triplo disco in solo che presenta un doppio set di improvvisazioni tra Parigi (26 novembre 2008) e Londra (1 dicembre 2008). Il titolo scelto, tenebroso, enigmatico, forse sinistro se pensato in relazione alla spesso pubblicamente manifestata sindrome da affaticamento che ha colpito Jarrett in anni recenti e che lo ha tenuto lontano da esibizioni impegnative come le lunghe improvvisazioni in solo, potrebbe far pensare a un bilancio di fine mandato in tema di concerti solitari. Ma, scartata l’idea che il pianista possa aver scritto il suo testamento definitivo a soli 64 anni, si opta per una semplice allusione ai problemi famigliari, cui lo stesso Jarrett fa riferimento nelle note di copertina (cosa che, detto per inciso, non interessa molto, come non interessa gran parte delle nevrosi della persona).

Detto questo, le due session paiono particolarmente ispirate, proprio per quanto di più interiormente espressivo il pianista è riuscito a cavare in quei contesti. Un ventaglio di pattern molto ampio (soprattutto molto tipici, se pensiamo ai persistenti e secchi ostinati alla mano sinistra come lunga base di sostegno al solo della destra) che riesce a catturare gli ascoltatori quasi ad ogni cambio di scena. Il set di improvvisazioni parigine, suddiviso in otto parti di media durata, parla più forse alla mente che al cuore, per via di una serie di excursus nel terreno dell’informale, o dall’altro canto della costruzione melodica di ascendenza, o meglio di ispirazione tardo-romantica. Poi gli ammiccamenti all’universo dello standard, il recupero del feeling del più rassicurante gospel o del più zampettato bebop.

A Londra (dodici le parti in questo caso) invece Jarrett tira fuori più anima, veicolandola attraverso uno degli ingredienti più riscoperti: il blues. Anche se, contestualmente a qualche piccola sbavatura dal sapore molto umano che depura l’interpretazione da quel perfezionismo delle sessioni giapponesi che aveva probabilmente reso le esibizioni troppo fredde, o troppo giapponesi. Qui più che la perfezione quindi coglie nel segno il trasporto complessivo, la scelta dei colori sempre molto ben identificati, la convinzione nel portare le frasi, di trovare esiti e sviluppi. La Parte I parigina è fin memorabile nel suo muoversi attorno ad un sofferto centro armonico in modo cromatico. La Parte II si giustappone in modo pressoché perfetto, quasi come un tempo di sonata. Ed è probabilmente questo il migliore Jarrett, almeno quello più musicale in termini puramente razionali. Quando poi arrivano i blues a presa rapida lanciati al pubblico osannante, non si può far a meno di farsi coinvolgere in un rito collettivo molto educato, quello della musica che muove emozioni. Senza flash, senza colpi di tosse, senza distrazioni. Una musica fatta di sole note.

2009 © altremusiche.it

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