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Un Ornette Coleman del decennio DOC 1958-68 mirabilmente reinterpretato da un duo femminile di consistente spessore che vive all’ombra della non banale virtù di chi sa accostarsi a classici importanti come Lonely Woman senza uscirne male. Il rischio è duplice: o si stravolge tutto come hanno fatto i Naked City, oppure ci si rituffa nella vecchia modalità dell’esecuzione, quella sacrale dello standard, che reitera il passo di quell’infinta ruota del carretto del jazz più imbalsamato (che tale resterà fino alla fine dei giorni). Aki Takase e Silke Eberhard sembrano compiere il piccolo miracolo di riuscire a bloccare una musica così improvvisa ed esuberante per farne un repertorio classico-contemporaneo passibile di interpretazione. Insomma forse è proprio attraverso registrazioni come queste che è possibile considerare le musiche come quelle di Coleman degne di permesso di soggiorno anche all’interno di programmazioni contemporanee tout court. E non ci si riferisce all’ospitalità concessa agli ultimi mostri sacri del jazz, che peraltro hanno già calcato le scene di molte accademie, bensì a quella da concedere alle loro musiche che potrebbero ora essere lasciate libere di vagare per il mondo anche senza i loro padri (portata che è sempre stata limitata anche dalla diffusione dei supporti audio che immortalano gli originali).
Aki Takase, pianista giapponese che può vantare diverse collaborazioni prestigiose tra cui vale senz’altro la pena ricordare quella in duo con Alexander von Schlippenbach, non è nuova agli omaggi dedicati ad illustri maestri del passato come Ellington, Monk, Dolphy, e Fats Waller. Tante così nobili frequentazioni non hanno che giocato a suo favore nell’approccio alla musica del texano, dalle più strutturate note di Turnaround, The Blessing o Peace, alle più scivolose Focus on Sanity o Airborne. Non scontato l’omaggio dai sapori quasi schubertiani dell’originale Dedicated to OC-Doughnut, unico elemento non colemaniano della raccolta. Sull’altro fronte non sfigurano l’alto e i clarinetti di Silke Eberhard, a cui spetterebbe l’ingrato compito di ripercorrere a ritroso i passi del creatore del shape of jazz to come. Il suo saggio migliore lo dà in Broadway Blues, in cui l’alto si leva plastico e sicuro come l’eco delle migliori fanfare di Coleman e Don Cherry ai tempi meravigliosi dell’Original Quartet.
2007 © altremusiche.it
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