Robert Wyatt: “Dondestan”

Foto: Helena Dornellas
Andrea Coralli
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Robert Wyatt: “Dondestan” (Rough Trade, r 2742, 1991)

L’uscita di un disco di Robert Wyatt costituisce un vero e proprio evento per tutti coloro che sono legati a quel mondo, musicale e non, che la sua voce rappresenta. Chi è cresciuto tra Caroline e Gloria Gloom e ha assistito all’uscita di “Rock Bottom”, uno dei dischi più intensi e belli della storia del rock, chi, come me, vi è potuto assistere solo in seguito, scoprendo Wyatt sulla scorta dei lavori con i Soft Machine d’un tempo o delle recenti realizzazioni in formato E.P., tutti questi non possono far altro che comprare al volo il nuovo capitolo e centellinare l’ascolto come si fa con le cose preziose.

E questo ascolto meditato, attento, devoto, si può dire ricambierà chi l’ha compiuto con il piacere di ritrovare sensazioni, emozioni di cui, per fortuna, non si riesce a far a meno. Mi si perdoni il tono quasi ieratico, ma la stessa opera di cui si parla, richiede questo tipo di accostamento, fideistico si direbbe.

“Dondestan” è appunto un disco da ascoltare con grande calma e con la giusta disposizione d’animo. Nessun consumo veloce, niente fretta. Le cose importanti emergeranno poco alla volta, da sole.

È un lavoro dolente, affaticato, inerme e disarmato, eppure, come la voce di Wyatt, attraversato da una sottile vena di gioia, di ilarità che ne stempera la malinconia che lo costituisce. Gli aficionados ritroveranno nei diversi brani le tessere dello stile wyattiano, frutto del suo lavoro in proprio e come collaboratore.
La musica ha un andamento placido e disteso, un po’ scuro. E qui la memoria va all’incontro con Brian Eno, per Gloria Gloom (del 1974) o del primo episodio della serie Ambient (1978). Così per quel synth su cui si apre e che accompagna Costa, e che ritroveremo in chiusura del disco. L’atmosfera di alcuni brani, essenziale, costruita su poche note, ci fa venire in mente la collaborazione con Cage del 1975: una voce che armonizza sulle scarne ma “dilatate” note di una scala esatonica. Il disco, come il precedente “Old Rottenhat”, è interamente suonato da Wyatt, con grande frugalità di mezzi (un organo che già conosciamo, un synth, qualche percussione e poco altro). The sight of the wind è in questo senso il brano più rappresentativo: tastiere di sottofondo, con qualche remoto arpeggio d’organo, e due note di pianoforte. E quella voce che non potrebbe essere altrimenti. In più quel respiro percussivo (rovesciato su nastro) che fa subito pensare ad Alife di “Rock Bottom” dove questo stesso espediente serviva a imitare il respiratore delle sale di rianimazione. Catholic Architecture: quattro note di piano e ancora tappeto di sintetizzatore. La lezione di Eno si rivela vitale là dove non ce la si aspetta.

da: Andrea Coralli, “Navigando sui mari di formaggio”, Auditorium Edizioni, 1996 © Auditorium Edizioni / Michele Coralli

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