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Siamo dentro all’Hangar Bicocca, immersi in una luce colorata che si irradia dal neon modellato da Lucio Fontana – quasi come fosse un mandala – per un omaggio alle sperimentazioni elettroniche dello Studio di Fonologia di Milano dal titolo “La fabbrica illuminata”.
E come in un viaggio a ritroso i nostri pensieri corrono alla fine degli anni ‘50, alla Breda, alle durissime condizioni di lavoro in fabbrica tra esalazioni nocive e luci abbaglianti, alle lotte operaie. In quello stesso periodo la RAI di Milano affidava a Bruno Maderna e al giovane Luciano Berio l’attività dello Studio di fonologia dell’azienda, lo stesso da cui poi passeranno John Cage, Luigi Nono, Aldo Clementi e moltissimi altri compositori. Restano nella memoria di quel periodo virtuosismi artigianali a quattro mani di Maderna e Berio, che dovevano, tra le altre cose, anche orchestrare nottetempo musiche per la radio.
Nel frattempo Nono stava lavorando insieme a Giuliano Scabia a un progetto operistico (mai realizzato), Diario italiano, il cui tema centrale doveva essere appunto “la fabbrica” come luogo di alienazione e di sottomissione delle masse. Musicista e scrittore fecero un enorme lavoro sul campo. Nono insieme a Marino Zuccheri, il leggendario fonico dello studio di fonologia, andò all’Italsider di Cornigliano nei pressi di Genova dove registrarono i rumori delle macchine, le voci, le testimonianze e le grida di protesta degli operai, catturate durante le loro riunioni. Scabia invece trascriveva lo “slang” dei lavoratori, traendo spunto dai documenti sindacali.
All’interno della ex-Breda abbiamo avuto l’occasione di rituffarci nell’arte e nella musica di quello strabiliante ventennio: la luce, protagonista delle opere di Fontana ospitate dall’esposizione “Ambienti/Environments”, sembra dare il via all’espansione delle onde sonore. Dalla sovrastante opera di Fontana (Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951) veniamo proiettati direttamente dentro alla dimensione acustica dell’antico studio di fonologia attraverso il moderno impianto ottofonico gestito da Alvise Vidolin.
Apre la serata Djamila Boupacha (1962) per voce sola di Luigi Nono: un soprano, Livia Rado, intona una sofferente linea melodica dalle ampie arcate. Poi il fulminante Thema (Omaggio a Joyce) (1968) di Luciano Berio: uno studio sull’onomatopea di echiana memoria e sul capitolo XI dell’Ulisse di James Joyce, nel quale l’ambiguità tra linguaggio/parola/suono viene esplorata in un’espansione polifonica che traccia un percorso che parte dalle parole per arrivare ai suoni e alla musica.
Poi Differences (1959), sempre di Berio, per ensemble ed elettronica. Qui il compositore ligure utilizza materiale strumentale pre-registrato che, contrapponendosi al suono degli strumenti dal vivo, crea una nuova dimensione spaziale, nella quale il gesto strumentale sembra quasi prendere corpo, proiettandosi e rimbalzando attraverso le alte volte dell’Hangar.
Segue Continuo (1958) di Bruno Maderna: uno studio sul timbro complesso creato da una matrice di 22 campioni: 22 stati timbrici che danno luogo a “gesti sonori primordiali” in un crescendo che in alcuni istanti lascia quasi intravvedere un lontano canto, un’introduzione che gradualmente ci porta al rituale finale, passando per il Concerto per pianoforte di Cage, e che sfocia nella tragedia noniana de La fabbrica illuminata, all’interno della quale i rumori industriali si contrappuntano a voci di folle infuocate, suoni di sintesi e a una voce femminile solista che intona due poesie di Cesare Pavese e i testi “di fabbrica” di Scabia. Il mix di parole di lotta, di lamenti, di rumore furioso delle macchine assordanti, ma al tempo stesso elettrizzanti, porta con sé una forza tragica e mitologica al tempo stesso, evocata perentoriamente dai totem moderni dell’impianto e delle sue vene elettriche (i cavi, i laptop, il mixer), che improvvisamente lasciano emergere la voce solista del soprano, quasi come se, provenendo da spazi siderali, fosse in grado di placare l’impressionante forza delle macchine o la disperazione delle folle.
Vidolin, quasi un sacerdote profano, dalla sua postazione vicino al mixer controlla un complesso sistema sonoro che riesce a donarci un’esperienza acustica avvolgente e cristallina, a tratti quasi avvicinandoci alla soglia del dolore. L’Ex Novo Ensemble, diretto con estrema cura da Claudio Ambrosini, viene percepito come un luogo intermedio tra l’uomo e la sua nuova estensione/dimensione, interna agli strumenti elettronici e alla voce pura e tagliente del soprano Livia Rado. La cantante osserva impassibile il corso degli eventi e quando interviene accoglie dentro di sé, quasi come in un atto sacrificale, le risonanze ancestrali e turbolente delle quadrifonie che dilatano/estendono il gesto umano e si espandono quasi a trasformarsi nelle luci di Fontana sovrastanti.
L’Hangar Bicocca e le sue sette torri diventano così il tempio moderno dentro il quale vengono evocate le utopiche muse che ispirarono una delle più feconde stagioni culturali occidentali: gli anni dell’utopia internazionalista, della cultura psichedelica, della lotta femminista, della rivoluzione studentesca e delle successive manipolazioni “oscure” che normalizzarono quelle utopie. L’ex-Breda come un teatro ateniese con il coro e le maschere per un grande spettacolo tragico. Milano, in una sua vecchia fabbrica, ha ritrovato il suo anfiteatro.
febbraio 2018 © altremusiche.it
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