CD: costi, benefici e false polemiche

Michele Coralli

Prendiamo spunto da alcune prese di posizione da parte di diversi critici e giornalisti che ci sembra assolutamente fuori dalla realtà. Sicuramente il fatto di ricevere in dono continuamente merce che nei negozi costa anche 18 o 20 euro all’etto, fa perdere completamente il senso del valore aggiunto a un comune CD che contiene musica composta, suonata, registrata, pubblicata, promossa e venduta. Ovvero sostenere che il prezzo equo potrebbe essere 4 o 5 euro a copia significa davvero aver perso il senso del valore commerciale delle cose. Non voglio entrare nello specifico del valore artistico di certi dischi: non si può certo impedire alla gente di inciderne di nuovi ed è normale che ci sia una iperproduzione di materiali, che non meriterebbero altra sorte che quella del cassonetto. La realtà della produzione discografica mondiale è sotto gli occhi di tutti: chiunque faccia il lavoro del recensore non raramente viene colto da vertiginosi giramenti di testa al momento di ricevere chili e chili di materiale da recensire (e ovviamente si tratta di un voluttuoso giramento di testa).

Saturazione quindi, eccessiva, ma pur sempre specchio di una situazione produttiva (e forse creativa) molto ricca. Sta al critico consigliare, ma soprattutto descrivere quello che sente, per far capire se il CD che ha tra le mani può interessare chi legge oppure no. E in questo la critica dovrebbe davvero fare un bel bagno nella cenere, in quanto troppo spesso si ricade nell’entusiasmo sciatto o nella stroncatura senza dire un emerito … su quello che si è ascoltato (per credere leggere qua e là alcune testate italiane…).

Se il compito del critico è allora “descrivere bene”, quello del discografico è quello di “produrre bene”, cercando di eseguire un lavoro curato in ogni sua parte. Ormai non si può più usare qualche nastro inedito, ripulirlo e arricchirlo in post-produzione, per poi appiccicarci su una copertina presa da qualche gif scaricato in rete. Il lavoro da fare dovrebbe curare il prodotto in ogni sua parte, a partire, ovviamente, dalla scelta artistica (anche se materiale da concime è sempre esistito e continuerà ad esistere).

Vengo allora alla questione dei prezzi, che è poi quella più dibattuta. Se critici come Scaruffi esagerano in un senso, io credo che anche coloro che credono che il prezzo giusto per un CD sia quello che generalmente troviamo in giro non relazionino in maniera adeguata il proprio ragionamento alla realtà produttiva attuale.

E’ vero che la filiera del prodotto CD è lunga e complessa, e prevede un enorme dispendio di risorse sul piano della promozione, ma è anche vero che i tempi in cui i Beatles mettevano le tende nei costosi studi di Abbey Road e lì rimanevano mesi a manipolare i nastri, sono finiti per sempre. Oggi un buon prodotto lo si può registrare in pochi giorni e trasformare in fase di post-produzione in altrettanti pochi giorni. Hard-disc recording, digitalizzazione, strumenti virtuali, Internet e un sacco di altre possibilità hanno oggettivamente abbattuto i costi in fase produttiva. La stampa poi non incide sul costo finale se non in misura esigua (da scalare a seconda del numero di copie pubblicate). Il lavoro grafico può essere fatto in casa o per merito di qualche piccolo professionista con ottimi risultati. La promozione poi non richiede altro che un addetto stampa che smisti tra le varie testate il prodotto finale con cartellina (un foglio con qualche nota biografica e parole in libertà…). L’IVA al 20% starebbe bene se i soldi che confluiscono nelle casse dello Stato fossero impiegati per finanziare progetti culturali di natura musicale, operando alcune distinzioni tra l’IVA che porta Jovanotti e quella che porta Giorgio Gaslini, ovvero ridistribuendo le quote in modo equo, che so tra musica pop, jazz, folk e classico/contemporanea (non è giusto, ma sto popolo di sanremesi occorrerà farlo crescere in qualche modo…).

Probabilmente il danno della pirateria viene comunque contenuto dal costo dei CD, ma anche dai ritorni dei diritti televisivi, pubblicitari ecc. La rete idrica è piena di falle, ma fa arrivare l’acqua ai rubinetti: le copie domestiche esistevano già con le cassette e non si può certo credere di eliminare la possibilità di farle.

Allora si viene al punto reale della questione: la pubblicità. E’ questa la voce che incide su gran parte dei costi. Più un prodotto è pubblicizzato, più costerà. L’immagine dell’ultimo disco di Celentano l’ho vista perfino sui biglietti del tram della mia città. Un CD del genere NON PUO’ costare meno di quello che vediamo in giro. Invece, all’estremo opposto, un disco di musica improvvisata che raccoglie nastri analogici degli anni ’70 con copertina in due colori, senza la ben che minima pubblicità, DEVE costare meno. Differenziare i costi è possibile, anzi auspicabile.

Il problema allora è: il mercato discografico è in grado di comunicare che tipo di lavoro c’è dietro ad un prodotto?

Io credo che quello che ci si possa auspicare è una maggiore trasparenza sui dati leggibili in copertina, che dovrebbero essere in grado di dirci cosa esattamente c’è dentro (registrazioni DDD o AAA effettuate dove e come, libretti, foto, interventi critici, tracce cd-rom, ecc.) e cosa c’è dietro (soldi all’artista, soldi al distributore, al negoziante, alla casa discografica, ecc.). Ma, da parte delle case discografiche, spesso si adottano atteggiamenti furbeschi che mirano a creare cortocircuiti nel mercato. La gestione del back-catalog (ovvero dischi di cui detengono ormai i completi diritti di sfruttamento) dovrebbe venire maggiormente incontro alle esigenze di chi vuol conoscere quello che è stato pubblicato in passato senza intercorrere in raccolte raffazzonate, che contengono oscure alternative-tracks, che invece di far gola fanno tristezza.

Il consumatore, da parte sua, deve essere in grado di discernere quello che è un prodotto di bassa o alta qualità, sapendo che quando compra un CD, paga per la maggior parte, la struttura promozionale che c’è dietro. Si può essere più o meno consapevoli di cosa significhi oggi un mercato discografico dominato da multinazionali che richiedono solo soldi per mantenersi. Secondo un parere personale ci si può comportare tranquillamente come fanno alcuni consumatori su categorie merceologiche come le scarpe da ginnastica o il latte condensato. Boicottare? No, scegliere con la volontà di sapere come vengono ripartiti i soldi. Al giovane rockettaro non frega nulla di questo? Non lo darei per scontato. Facile che invece interessi al 40/50/60enne che ormai è diventato protagonista assoluto del consumo musicale e a lui non sempre viene la voglia di mettersi a scaricare canzoni, ammesso che si voglia continuare a fare gli struzzi pensando che sia Internet l’unico vero problema di questa civiltà dei consumi mancati. A loro un’inutile icona da combattere, a noi buona musica da ascoltare.

settembre 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli

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