Scelsi poeta (pt. 2) – Dalla scrittura alla voce [MusicaPoesia / PoesiaMusica #1]

Adelio Fusé

L’homme du son
un peu d’ombre
occupe toute la vallée
son chant n’aura
point de fin

(Giacinto Scelsi)

[L’uomo del suono / un poco d’ombra / occupa tutta la valle / il suo canto non avrà / fine]

Poeta e compositore: un passaggio di testimone

Scelsi poeta e Scelsi compositore. Come interagiscono? Quali le corrispondenze fra il primo e il secondo?
Riprendendo il filo del discorso, dobbiamo necessariamente riandare alla prima parte di questo scritto [cfr. Scelsi poeta (pt. 1) – Il suono e la parola]. Il primo elemento della relazione è dato dal suono, elemento rilevante anche per il poeta, il quale predilige la lingua francese perché ritenuta fonicamente più interessante dell’italiano (→ pt 1, 2). Ovviamente non si tratta di un predilezione ‘esteriore’, dovuta a una supposta gradevolezza della lingua lingua francese assente invece nella lingua italiana. Quando alle nostre orecchie una poesia suona bene o male i giochi sono già stati chiusi. Possiamo decidere come leggere una poesia ma i suoni che compongono quella poesia sono proprio quelli e non altri. Il suono è tutt’altro che un abbellimento superficiale ma ha, piuttosto, una funzione strutturale. Il suono genera il ritmo. Una poesia è un corpo sonoro la cui tenuta dipende primariamente dal ritmo che lo muove e in questa direzione va il poeta Scelsi.

Manoscritto della poesia “L’homme du son” (Fonte: “i suoni, le onde…”, Rivista della Fondazione Isabella Scelsi, n. 2, Roma, 1995).

Vi è un aspetto che evidenzia più di altri una sorta di passaggio di testimone dal poeta Scelsi al compositore Scelsi (→ pt 1, 3). Il poeta pratica una parola essenziale fino alla rarefazione e il compositore, lo Scelsi che mette a fuoco la propria ricerca vocale nei primi anni Cinquanta, parte proprio da lì, dove è giunto il poeta, e si concentra sulle unità linguistiche minime. Insomma Scelsi poeta prepara il terreno a Scelsi compositore. È in questo senso che Scelsi poeta ‘scrive’ per Scelsi compositore, non nella direzione di un utilizzo dei testi del primo da parte del secondo.
Quella di Scelsi non è una poesia di servizio e men che meno è un’ancella della musica. D’altra parte il compositore non ha mai direttamente ‘messo in musica’ una poesia di Scelsi poeta, fatte salve, ovviamente, le sorprese che potrebbero emergere dai ben settecento nastri conservati nell’archivio della Fondazione Isabella Scelsi.

Dobbiamo risalire agli anni Trenta, quindi a una ancora fase aurorale del compositore Scelsi, per trovare dei testi musicati: tutti di altri poeti; la prima raccolta poetica ‘certificata’ di Scelsi, Le poids net, datata 1945) e sette liriche per canto e pianoforte (1933-1938) che nella varietà attestano comunque una preferenza non solo per la letteratura francese (Charles Baudelaire, Charles Silvestre, Jean Wahl, Jean Cocteau), ma per la lingua francese, dato che i testi vengono mantenuti nella lingua originale. Fra gli autori scelti compare inoltre un autore arabo anonimo, tradotto in francese. Due invece gli autori italiani, Sibilla Aleramo (1933), Gabriele D’Annunzio (1933).

In seguito, dopo La nascita del Verbo (1948), per coro misto e orchestra, che nella parte testuale si basa su due salmi in latino, l’utilizzo di testi sarà limitato a poche eccezioni e sempre attingendo alla liturgia cattolica (in latino, appunto). Le Grand Sanctuaire (1970), per tenore solo, che si segnala anche per la brevità (due brani di due minuti ciascuno), utilizza invece il testo di un santo e teologo del IV secolo, Gregorio Nazianzeno, ma reso – ancora una volta – in francese (Il est gran temps), e di un altro testo in francese di autore anonimo (Même si je voyais).

La selezione scelsiana di testi legati al cattolicesimo non deve comunque trarre in inganno. Scelsi mira a una sorta di personale sincretismo religioso – ma meglio sarebbe dire spirituale in senso lato –, in cui convivono induismo, buddhismo tibetano, interesse per i riti della Chiesa bizantina e per i culti delle civiltà precolombiane, islamismo…
In definitiva, a fronte di un catalogo smisurato e di un cospicuo numero di composizioni vocali – con voce solista o coro –, il numero dei testi utilizzati è davvero scarno.

 

Simulazione del testo e fonemi

Dai primi anni Cinquanta, quando il compositore Scelsi diventa ‘veramente’ Scelsi, la ricerca vocale va verso la disarticolazione dei significati, rinuncia al testo letterariamente inteso per allestire invece dei non-testi o dei finti-testi e approdare infine alla parcellizzazione dell’elemento fonico-vocale. Fonemi, dittonghi e sillabe sostituiscono il testo. Inoltre le consonanti esercitano sul compositore un fascino di forte presa, che si manifesta fin dalla scelta dei titoli: CKCKC (1967), per voce e mandolino (un interprete), TKRDG (1968), per 6 voci maschili, chitarra amplificata e percussioni.
Rispetto alla scrittura in francese del poeta, ma anche del saggista Scelsi, l”ambiente sonoro’ cambia completamente: non più armonioso, sospeso, ‘aperto’ ma impervio.

Il passo iniziale è Yamaon, 1954-1958, per voce di basso e 5 strumenti. La voce interpreta un personaggio, Yamaon, appunto, che, ci informa il sottotitolo, “profetizza al popolo la conquista e la distruzione della città di Ur”, leggendaria ma anche storica città sumera, uno dei primi insediamenti in Mesopotamia. Si ha l’impressione che il canto, che si dispiega cupo e rapido, mosso dall’urgenza di dare l’annuncio, intoni un testo, ma un testo non c’è. Il profeta di sventure Yamaon non racconta alcuna storia. La storia è tutta nella ‘cornice’, cioè il sottotitolo, secondo una soluzione descrittiva e narrativa che ricorre in diverse composizioni scelsiane.
A Yamaon è tematicamente associabile Uaxuctum (1966), per Ondes Martenot, 7 percussionisti, timpanista, coro misto e orchestra, che nella cornice narrativa del sottotitolo allude alla distruzione di una città dei Maya messa in atto dai suoi stessi costruttori per motivi religiosi. Il tema della distruzione di antiche città si inserisce in una visione universalistica della storia che poggia anche sul mito e che tende a recuperare le civiltà che abbiamo alle spalle, ormai da noi lontanissime, ma che pure hanno contribuito in modo fondamentale alla nostra evoluzione.

Michiko Hirayama. (Fonte: “Canti del Capricorno” nell’edizione in vinile Wergo, 1987; WER 60127; autore della foto anonimo).

Cuore della ricerca vocale scelsiana sono i Canti del Capricorno (il titolo allude al Tropico del Capricorno, dove il Sole giunge allo zenit nel solstizio d’inverno ed entra nel segno astrologico del Capricorno, il segno di Scelsi). Costruiti sulla voce di Michiko Hirayama, i Canti sono il risultato di un lavoro lungo, che si è sviluppato nell’arco del decennio 1962-1972. I venti episodi per voce sola che costituiscono il ciclo, e che in quattro canti prevedono strumenti di accompagnamento, derivano dalla selezione di un materiale molto più vasto, frutto delle improvvisazioni di Hirayama guidate da Scelsi (per l’ascolto si rimanda al cd Wergo, WER 6686 2, 2007).

Per Scelsi la voce è a tutti gli effetti uno strumento, alla stregua di qualunque altro e, come tale, può fare a meno di un testo. Nei Canti abbiamo un campionario sbalorditivo di “tecniche” e modalità di emissione del suono-voce (nasale, gutturale, vibrato, glissando ecc.). Abbiamo anche molto Oriente, come è naturale che sia con Scelsi. Un Oriente che va dalle lingue dell’antica Mesopotamia – considerate nella loro valenza fonica – ai canti della Chiesa bizantina, al canto dei monaci tibetani, agli inni vedici con la loro particolare accentazione delle sillabe, ai rāga indiani, eccetera.

Ma questi sono ‘soltanto’ i presupposti. Il tutto è poi ricondotto, e certo con il contributo fondamentale di Hirayama e della sua voce, a una visione tutta scelsiana. Da parte sua la cantante ha sempre riconosciuto il valore decisivo di quell’esperienza condivisa con il compositore, fino a dichiarare che, grazie al lavoro sui Canti, ha sentito di poter ottenere dalla propria voce qualunque tipo di suono.

 

La parola prima della parola

Senza le qualità e la duttilità di Michiko Hirayama (la quale aveva già eseguito in prima assoluta , 1960, “Cinque melodie” per soprano solo composte da Scelsi per lei) i Canti del Capricorno probabilmente sarebbero stati qualcosa di molto diverso, o forse neppure sarebbe stati composti. Di conseguenza l’intera e copiosa produzione vocale successiva – anzi, che procede in parallelo con la composizione dei Canti – avrebbe avuto un’altra connotazione.

Nel periodo in cui nascono i Canti Scelsi compone un gran numero di lavori per voce sola ­(femminile ma anche maschile, benché le preferenze vadano alla prima) o accompagnata da uno strumento, per voce solista con vari organici, per coro, per coro e orchestra. Diversi sono anche i lavori concepiti per la voce di Hirayama. Per citarne alcuni: Lilitu (1962), per voce femminile; Taiagarù (1962), “Cinque evocazioni” per soprano solo; Khoom (1962), “Sette episodi di una storia d’amore non scritta, in un paese lontano” (1962), per soprano e sette strumentisti; Pranam I (1972), “Alla memoria di Jani e Sia Christou”, per voce, 12 strumentisti e nastro magnetico.
Tutto questo per rilevare quanto sia stato proficuo l’interscambio fra una cantante che fin dagli anni della formazione in Giappone si sentiva attratta dalla musica europea e un compositore che dall’Occidente guardava a Oriente.

Inizio del “Canto VIII” (Fonte: Solange Ancona, “Canti del Capricorno”, in “Giacinto Scelsi. Viaggio al centro del suono”, a cura di Pierre Albert Castanet e Nicola Cisternino, Luna Editore, La Spezia, 2001).

La sintonia d’intenti fra Scelsi e Hirayama fa pensare, inevitabilmente, a un altro sodalizio, che ha beneficiato di ben altra risonanza – del resto ampiamente meritata –, formato da un compositore come Luciano Berio e da una sperimentatrice vocale come Cathy Berberian.

Nel 1965, quando è in corso da tre anni la composizione dei Canti del Capricorno, Berio compone per Cathy Berberian – anzi sulla voce di Cathy Berberian, come ebbe a dire lo stesso Berio –, un’opera emblema dello sperimentalismo vocale degli anni Sessanta, vale a dire Sequenza III. Sono anni di grande rinnovamento musicale e la vocalità e il linguaggio (letterario e non solo) non possono rimanere impermeabili, anzi si impongono come una sfida ulteriore. Sappiamo, fra l’altro, che Scelsi conosceva la Sequenza III dato che alla Fondazione Isabella Scelsi è conservato un nastro con il brano interpretato da Berberian in una trasmissione radiofonica.

La nuova vocalità di fine anni Cinquanta-inizio Sessanta, con prosecuzione nei Settanta, agisce sul linguaggio seguendo tre tendenze principali che Berio ben riassume:

1) scomposizione/ricomposizione del testo letterario (Thema (Omaggio a Joyce), 1958);
2) rinuncia al testo a favore del suono-voce (Visage, 1961);
3) demistificazione del linguaggio d’uso (Sequenza III).

Quelli ricordati sono tre lavori – fra i vari – centrati sulla voce di Berberian. I primi due, realizzati nello Studio di Fonologia della Rai di Milano, sfruttano le possibilità degli strumenti elettroacustici per dare rilievo agli elementi fonetici e fonici e per ampliare la gamma timbrica della voce. Inoltre va sottolineato, almeno en passant, il ruolo di un brano come Thema, momento-chiave di un approccio analitico al testo letterario che, da lì in poi, non verrà mai meno in Berio.

In linea di principio la vocalità scelsiana si avvicina più a quella del Berio di Visage che al Berio di Thema o della Sequenza III, nella quale Berio recupera, ma nello stesso tempo frantuma, il linguaggio corrente, in quanto sintomo di una comunicazione usurata (comunicazione che Scelsi ignora), mentre in Visage, dove manca un testo, la voce è, per così dire, protagonista di sé stessa e coincide con il linguaggio come fonte sonora. Scelsi neppure si pone come obiettivo prioritario la scomposizione del testo letterario, fino a denudarlo e lasciarlo risuonare nei suoi elementi più scopertamente fonici. Per giungere a questi elementi Scelsi fa a meno del testo letterario, che è già un’elaborazione successiva. Mentre Berio è il compositore che si accosta al linguaggio vestendo i panni del linguista, Scelsi è il compositore che punta diritto all’essenza prima del linguaggio tout-court, cioè il suono.

 

Mistica dell’origine

Scelsi compositore cerca l’origine del suono. Ma Scelsi cerca anche l’origine della parola – del suono-parola; meglio: del suono che non è ancora parola ma che diverrà parola. I Canti del Capricorno, con i loro effetti anche ‘selvatici’, ci portano a ritroso nel tempo, fino al mondo umano dei primordi, dove il linguaggio deve ancora formarsi. La stessa Hirayama descrive i Canti come una storia della Terra e dei suoi abitanti, anche se il finale non è propriamente benevolo verso i ‘terrestri’: l’ultimo canto viene inteso come un congedo dal pianeta Terra e come un passaggio – inevitabile – a una dimensione ‘altra’. (Si veda nel booklet allegato al citato cd Wergo la conversazione, davvero significativa, fra Jürgen Kanold e Michiko Hirayama).

Inizio del “Canto IX” (Fonte: Solange Ancona, “Canti del Capricorno”, cit.).

Proprio per il loro scavare fino alle radici del linguaggio, i Canti sono la risposta ‘umana’ a una composizione come La nascita del Verbo, che è invece un tributo inquieto alla parola divina (anzi, la Parola). La chiusura del cerchio, la pacificazione, si ha nel terzo movimento di Konx [pace in assiro antico]-Om-Pax, dove il coro, in un cerimoniale in cui il dualismo mondano-trascendente cade e rimane il Tutto, intona la sillaba Om (sillaba sacra che nell’induismo e nel buddhimo è associata alla vibrazione primigenia dell’universo).
Konx-Om-Pax (1968), per coro misto e orchestra, è davvero l’opera manifesto di Scelsi, una musica a programma, i cui intenti sono chiari fin dal sottotitolo: “Tre aspetti del Suono: come primo movimento dell’immobile; come forza creatrice; come la sillaba Om“. Detto con un’altra citazione scelsiana: “Il Suono è il primo moto dell’Immoto”.

Scelsi? Un mistico, sicuramente. Ma un mistico che non mette in atto una strategia autosacrificale. Quella di Scelsi è invece una pratica sensoriale che insegue la fisicità del Suono, tanto è vero che la sua musica, al massimo della forza tellurica, sembra salire dalle profondità della Terra più che discendere dalle sfere celesti. Sentire la materia sonora, essere la materia sonora: questa è la ragione di Scelsi compositore. Che rimanda alla messa a punto di un metodo compositivo fondato sull’improvvisazione (al pianoforte e all’ondiola, ma anche con strumenti a percussione), pratica creativa che permette il contatto diretto con la materia sonora. E molto si potrebbe dire sulla predisposizione di Scelsi all’improvvisazione notturna. Dato che per Scelsi il Suono è Luce (→ pt. 1, 2), abbandonare il giorno e la luce della quotidianità ordinaria per entrare nella notte significa rischiarare il buio con la vera Luce che è il Suono.

La partitura, che deriva dalle improvvisazioni registrate, e da precise indicazioni trasmesse ai trascrittori, esaminata da Scelsi in tutte le fasi della stesura, fino a quella definitiva, appare così un’appendice. Necessaria, in quanto permette la sopravvivenza dell’opera attraverso le possibili esecuzioni future, ma pur sempre un’appendice. Nello stesso tempo bisogna però tener presente che la finalità imprescindibile è proprio la composizione rigorosamente e scrupolosamente definita in ogni dettaglio. L’improvvisazione non è la composizione: raccoglie materia da vagliare, rielaborare e ‘montare’, così come in età analogica negli studi di musica elettronica si ‘cucivano’ le diverse parti di nastro magnetico. Con la differenza che nel caso di Scelsi il montaggio definitivo è la partitura.

L’idea del Suono passa attraverso la verifica sul campo: l’improvvisazione è un fare il suono e un ascoltare il suono che non è ancora il Suono con la S maiuscola e che forse non lo sarà mai. Si ha un divenire continuo, che procede per approssimazioni successive I canti del Capricorno hanno preso vita proprio in questo modo: sessioni di improvvisazione, sperimentazione, registrazione dei risultati via via ottenuti per arrivare infine alla partitura.
L’atteggiamento di Scelsi verso la materia sonora rimane lo stesso quando si passa dalla fase creativa a quella interpretativa. Da qui lo scontento del compositore per non poche esecuzioni delle sue musiche e da qui il lavoro con interpreti che sentiva particolarmente vicini (oltre a Michiko Hirayama, Ferdinando Grillo, Joëlle Léandre, Enzo Porta, Marianne Schroeder, Stefano Scodanibbio, Frances-Marie Uitti, per citarne alcuni, negli anni via sempre più numerosi).

 

“Il soffio di Scelsi”

Scelsi ha radicalizzato una metodologia compositiva che è risultata a lungo indigesta – soprattutto in Italia – a larga parte della cosiddetta ‘accademia’, dei ‘colleghi’ e degli addetti ai lavori, in quanto andava a toccare ciò che sembrava consolidato per statuto: il ruolo e la funzione del compositore.
I detrattori, aggrappandosi alle trascrizioni affidate ai collaboratori – e gli assistenti degli ‘altri’ compositori? –, gli hanno riversato addosso le peggiori accuse, fino a disconoscergli la paternità della sua stessa musica. Per partito preso, non si è voluto capire che anche nella metodologia scelsiana il compositore rimane comunque al centro della scena. Lo aveva invece compreso un estimatore di Scelsi come Goffredo Petrassi, fra i pochi fuori dal coro in ambito accademico: c’è un ‘soffio’ – “il soffio di Scelsi” – che attraversa, unico e riconoscibile, tutta la sua musica. Ecco, sulla scena di Scelsi circola il “soffio di Scelsi” e solo quello.

In Il sogno 101 (Quodlibet, Macerata, 2010, Prima parte, p. 358) Scelsi si sofferma sull’atto creativo che avviene in stati di coscienza particolari. La descrizione di sé come “piccolissimo intermediario”, anzi come “postino” che porta nel nostro mondo una musica di cui lui non è il compositore, in quanto quella musica è stata concepita altrove e a lui è stata trasmessa da forze spirituali superiori, può ancora oggi far sorridere molti.
Occorre però considerare che se Scelsi è serissimo – e chiarissimo – quando parla della propria estetica musicale e quando parla di sé mescola volentieri le carte (la Prima parte di Il sogno 101, che è un mémoire, lo documenta ampiamente).
Il ridursi a postino non svaluta affatto né i postini né il compositore-postino. Semmai questo autoritratto serve a mettere sul tappeto, e con una salutare ironia, la questione dell’ispirazione o comunque la si voglia chiamare. In ogni caso anche nella versione scelsiana il compositore non abdica: crea e sovrintende. A futura memoria.

[La traduzione della poesia “L’homme du son” è a cura dell’autore]

aprile 2018 © altremusiche.it

PRIMA PARTE: Scelsi poeta (pt. 1) – Il suono e la parola [MusicaPoesia / PoesiaMusica]

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