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Risvegliare l’orecchio, gli occhi, il pensiero umano, l’intelligenza, il massimo dell’interiorizzazione esteriorizzata.
Ecco l’essenziale oggi.
(Luigi Nono)
Poetico esteso
Nel catalogo di Nono la percentuale dei lavori che non ricorrono a un testo è davvero irrisoria. Per citare a uno a uno i poeti, gli scrittori e i filosofi convocati dal compositore dovremmo avere a disposizione una pagina intera; e senza contare i cosiddetti testi documentari, dunque le fonti extraletterarie (dalle lettere di condannati a morte della Resistenza europea agli appelli contro la guerra in Vietnam alle scritte murali del Maggio parigini ai documenti di contestazione della Biennale nel 1968).
Nei lavori di Nono degli anni Cinquanta abbiamo, in ordine di apparizione: Lorca, Neruda, Éluard, Pavese, Ungaretti; nei Sessanta, ancora Pavese, Machado, Scabia, Balestrini, Franqui, “Che” Guevara, ai quali vanno aggiunti quelli inclusi da Angelo Maria Ripellino nel montaggio dei testi per il libretto di Intolleranza 1960 (fra gli altri, Brecht, Majakovskij, Sartre); nei Settanta, Luxemburg, Marx, Huasi, più gli autori che lo stesso Nono seleziona per il libretto di Al gran sole carico d’amore (ancora Brecht, il “Che”, Pavese, oltre a Castro, Gramsci, Lenin, Marx, Rimbaud); negli anni Ottanta, ma anticipati dai frammenti hölderliniani inseriti nella partituta di Fragmente – Stille (1979): Rilke, Eschilo, Blok, Chlebnikov, Miłosz, Pasternak, Benn, Lucrezio, Michelstaedter, Nietzsche, Ovidio, Pound, Poe, Bachmann, Melville, Bruno, Jabès; più gli autori presenti nel libretto di Prometeo elaborato da Massimo Cacciari: Benjamin, Eschilo, Euripide, Erodoto, Esiodo, Goethe, di nuovo Hölderlin, Pindaro, Schönberg, Sofocle).
La tripartizione anni Cinquanta, Sessanta-Settanta, Ottanta corrisponde, grosso modo, a tre grandi fasi – impegno civile, attivismo politico, introspezione (o “interiorizzazione interiorizzata); la seconda – Sessanta-Settanta – è un incremento della prima, al punto che si potrebbe parlare di un’unica fase, mentre la terza, nella quale avviene un ripiegamento introspettivo, coincide con il passaggio, dovuto alle mutate condizioni sociali e politiche, da una soggetto collettivo (il noi della prassi politica) al soggetto singolo, un io mai svincolato, peraltro, dal senso di appartenenza a una comunità.
Gli autori menzionati mostrano i mutamenti degli interessi di Nono e, nella terza fase, evidenti cambi di direzione (dalla predilizione per un poeta come Pavese, classici del marxismo e autori del Novecento “impegnati” si passa a Hölderlin, la cultura mitteleuropea, il pensiero mitologico e tragico, volendo individuare i principali poli di attrazione). Insieme, gli autori costituiscono l’indice di un’antologia di testi per musica piuttosto ampia. Anzi, si è persino tentati di dire che in Nono il poetico è ovunque, tanto è esteso.
Senza dimenticare le doti di cui il compositore dà prova in testi di solido impianto saggistico (per esempio, Testo – musica – canto, 1960, ora nel volume di scritti La nostalgia del futuro [NF], a cura di Angela Ida De Benedictis e Veniero Rizzardi, il Saggiatore, Milano, 2007), la prosa che meglio esprime la vena del Nono scrittore – dagli interventi d’occasione, agli appunti in corso d’opera alle note di presentazione dei lavori – ha tono, modi e inflessioni poetiche. Anche nelle interviste e nei colloqui emerge una connaturata predisposizione al poetico.
Un breve testo del 1956 Precisazioni, scritto per il primo numero della rivista di Luciano Berio “Incontri Musicali”, e poi non pubblicato, sembra riassumere l’intero percorso di Nono. Si tratta di un testo sperimentale non solo per l’utilizzo di alcuni accorgimenti tutt’altro che esteriori e rispondenti invece a necessità espressive (mancanza di maiuscole, uso particolare della punteggiatura), ma soprattutto perché costituito da frammenti annodati, che sembrano – in modo sorprendente – prefigurare il Nono scrittore dell’ultima fase. Il testo è sorprendente anche nei contenuti. In meno di due pagine si ha una sintesi dell’intero tragitto noniano dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta: critica e rifiuto dell’accademismo; necessità di saldare “evoluzione” e “rivoluzione”, “uomo-sociale” e “uomo-poeta [musicista]”. Quest’ultimo – l'”uomo-poeta” – “procede tra spazi tra suoni tra colori” (NF, 29), ma calato in modo critico nella realtà sociale, e sembra prefigurare, fra l’altro, il Poeta protagonista dell’Hyperion di Bruno Maderna (cfr. articolo: Maderna, o della poesia senza parole). Il testo termina citando Antonio Machado:
non è la logica che nella poesia canta
ma la vita,
anche se non è la vita che dà struttura alla poesia,
ma la logica.
Questi versi, che Nono riporta come ammonimento a non separare arte e vita, contengono anche un saldo principio “compositivo” cui Nono si è sempre attenuto. Ciò che per Machado è la poesia, per Nono è la musica.
Poeticamente evocando
I titoli delle composizioni, che non equivalgono certo a una semplice segnaletica, sono la cartina di tornasole del poetico in Nono, intendendo con poetico la capacità evocativa della parola, del suono, oppure di un concetto o di una immagine. Perché il poetico, in definitiva, è un’evocazione, formulata in modo diretto oppure trasversale, con un che di misterioso.
Eccoli, allora, i famosi titoli noniani: Il canto sospeso, La terra e la compagna, Sarà dolce tacere, La fabbrica illuminata, A floresta è jovem e cheja de vida, Contrappunto dialettico alla mente, Un volto, del mare, Y entonces comprendió, Come una ola de fuerza y luz, Al gran sole carico d’amore, … sofferte onde serene… , Das Atmende Klarsein, Guai ai gelidi mostri, Risonanze erranti, Découvrir la subversion, La lontananaza nostalgica utopica futura, “Hay que caminar” sonañdo.
Alcuni titoli sono immediatamente comprensibili, altri più oscuri, ma tutti di grande forza attrattiva nel loro rimandare a territori da esplorare, non solo fisici ma impalpabili e mentali, spazi del pensiero e dell’immaginazione. E chi per primo – per sua stessa ammissione – si sente coinvolto in una esplorazione continua è proprio lui, il compositore.
La presenza del poetico in Nono è tale che persino un titolo come Polifonica – Monodia – Ritmica risulta tecnico solo in apparenza. La sillaba finale ica, comune a polifonica e ritmica, crea una continuità fonetica però spezzata, con un effetto sorpresa, dalla sillaba finale di monodia (dia). Uno sprazzo poetico sono queste parole scritte dal compositore in una lettera inviata con la partitura a Hermann Scherchen, che dirigerà poi la prima esecuzione a Darmstadt nel 1951: “in ascolto dei silenzi, dei canti degli echi”. Sono parole in qualche modo ‘veggenti’, tanto sembrano descrivere quella che sarà l’ultima fase di Nono.
In alcuni titoli l’evocazione rende subito evidente un ancoraggio: un personaggio letterario (Fragmente – Stille, An Diotima; la Diotima hölderliniana, pseudonimo della donna amata dal poeta e ispirata dalla figura classica di Diotima di Mantinea); una situazione storica, sociale e politica (Quando stanno morendo. Diario polacco n. 2; 1°) Caminantes… Ayacucho, quest’ultima, città simbolo peruviana dove si combatté una vittoriosa battaglia per l’indipendenza del Paese); persone con le quali Nono condivide, in una sorta di rispecchiamento, legami non solo creativi ma di amicizia (A Carlo Scarpa, architetto, si suoi infiniti possibili; A Pierre [Boulez], dell’azzurro silenzio, inquietum; in alcuni casi sono i ‘sottotitoli’ a chiarire il destinatario: Risonanze erranti. Liederzyklus a Massimo Cacciari; Découvrir la subversion. Hommage à Edmond Jabès; 2°) No hay caminos. Hay que caminar… Andrei Tarkowskij; La lontananza nostalgica utopica futura. Madrigale per più “caminantes” con Gidon Kremer); un paesaggio (Post-Prae-Ludium per Donau; nelle vicinanze di Donaueschingen, dalla confluenza dei fiumi Breg e Brigach nasce il Danubio e l’immagine del confluire per continuare a scorrere è di grande significato per Nono). Frammenti-silenzio; infiniti possibili; azzurro silenzio, inquietum; risonanze erranti; sovversione; caminates/caminar; lontananza; post-prae-ludium… Queste schegge poetiche, prese separatamente o assemblate, riassumono l’estetica dell’ultimo Nono, il suo pensiero poetante in musica.
Il poetico in Nono è sempre un’assunzione di responsabilità: morale, civile, ideologica, politica o spirituale (la definizione “responsabilità spirituale” è di Gidon Kremer e fa riferimento al Nono degli ultimi anni). Nel Nono compositore ‘impegnato’ – ma non solo – l’evocazione non è mai esteticamente fine a sé stessa ma si trasforma anche in una invocazione che è insieme denuncia e preghiera laica, commemorazione e celebrazione. Non a caso molti titoli sembrano suggerire uno stato di “sospensione”, presente, dunque, non solo in modo dichiarato nel Canto sospeso.
Nono dimostra sicuramente una grande fiducia nella forza evocativa della parola. Un titolo come Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz ha un alone poetico mentre inchioda ognuno di noi – con quel ricorda in seconda persona – alla necessità di ricordare, sottraendosi alla didascalia e risuonando nelle singole coscienze come un monito.
Pensiero poetante in musica e scena
Per Nono la musica non è – né mai dovrebbe essere – un mestiere ma un pensiero. (“La musica non è solo composizione. Non è artigianato, non è un mestiere. La musica è pensiero”. Altre possibilità di ascolto, 1985, NF, 251.) E nella musica di Nono troviamo, infatti, la predisposizione a un pensiero, precisamente un pensiero poetante.
Nel citato Testo – musica – canto, che comprende un brillante excursus storico sulla resa del testo in musica supportato da vari esempi (dalle reti polifoniche dei mottetti del XII secolo allo Sprechgesang di Schönberg), Nono descrive come ha scomposto e ricomposto i testi nei capolavori corali degli anni Cinquanta (Il canto sospeso, 1955-’56, testi dalle lettere di condannati a morte della Resistenza europea; La terra e la compagna, 1957, poesie di Pavese; Cori di Didone, 1958, da La terra promessa di Ungaretti), fino a ottenere dei microframmenti (sillabe e fonemi) che si sovrappongono a incastro.
Il saggio ruota intorno a un interrogativo: il testo va salvato nella sua integrità semantica, lasciandolo possibilmente intatto, oppure è lecito per il compositore ridurlo a un serbatoio sonoro svincolato dal suo significato?
Nono esce dall’alternativa. La scomposizione del testo (i cui segmenti – parole, sillabe, fonemi – sono poi distribuiti fra le voci a registri diversi) ha come obiettivo un potenziamento espressivo tanto della parola quanto della musica. Testo e musica, a questo punto, sono davvero tutt’uno. Nono non perde mai di vista la parola come “totalità fonetica semantica” (87). Non si ha quell’espulsione del significato che Stockhausen gli aveva rimproverato dopo aver analizzato in modo scrupoloso Il canto sospeso, rivolgendogli inoltre la pretestuosa accusa morale di aver sminuzzato testi che per il loro contenuto, così tragico, sarebbe stato bene proporre in versione integrale.
In Nono vi è sempre un grande rispetto per il testo e mai un uso utilitaristico. Il testo non è, appunto, un semplice serbatoio cui attingere. E quando il compositore, a proposito di Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz (1966, che con Il canto sospeso costituisce un dittico), afferma che il lavoro sui fonemi gli ha rivelato come dei semplici suoni possano avere una carica espressiva, “altrimenti significante e precisa, e forse ancor più, rispetto a quella ancorata a un testo preesistente”, risponde a esigenze contingenti.
Fermo restando che Nono non ha alcun interesse per l’uso del fonema come “divertimento formale”, semanticamente svuotato – e, a maggior ragione, in una composizione di così grande tensione come Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz –, il compositore qui, più che estromettere il testo, cerca un ‘nuovo’ testo. Un testo-voce senza le parole che si fanno discorso e che punti, invece, alla resa espressiva massima attraverso una gestualità vocale preverbale (lamenti, grida ecc. del soprano e del coro di voci bianche) capace di fondersi con i suoni elettronici e con le rielaborazioni in studio di materiali orchestrali e corali preesistenti (questi ultimi tratti da Composizione per orchestra n. 2: Diario polacco ’58 e Cori di Didone).
Più di vent’anni dopo, in una intervista con Michelangelo Zurletti nel 1987, il compositore confesserà il proprio disagio rispetto a Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. In questa occasione Nono sembra aderire alla celebre asserzione di Adorno, secondo la quale dopo Auschwitz non è più possibile scrivere poesia: la portata della tragedia è tale da rendere inadeguata e mai all’altezza qualunque tentativo di descrizione e rappresentazione. Per questa via, secondo Adorno, la critica della “barbarie” fallisce e perpetua proprio la barbarie. Ma i limiti espressivi sono sempre vissuti da Nono come una sfida ad andare oltre. Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz rimane una coraggiosa e struggente forma di poesia risolta in musica.
In Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz è piuttosto accentuata anche la componente scenica. E non solo per l’origine del lavoro (musiche per la pièce L’istruttoria, di Peter Weiss, poi trasformate in una composizione autonoma). La dimensione teatrale in Nono non coincide solo con la musica per il balletto Der rote Mantel e neppure con le “azioni sceniche” Intolleranza 1960 e Al gran sole carico d’amore o con la “tragedia dell’ascolto” Prometeo. Se Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz evoca una scena, La fabbrica illuminata (1964) fa altrettanto. A floresta è jovem e cheja de vida (1966), oltre che prevedere un “dispositivo scenico” e la presenza di attori (nel live e su nastro, con la partecipazione del Living Theatre), realizza un teatro vocale il cui intento principale è superare la contrapposizione fra canto e parlato.
Un esempio ulteriore di teatro vocale-elettroacustico è Contrappunto dialettico alla mente (1968), dove Nono, per stimolo di Nanni Balestrini, acconsente al gioco linguistico, a una vena parodistica dissacratoria e corrosiva dichiarata già nel titolo, un richiamo speculare al madrigale di Adriano Banchieri Contrappunto bestiale alla mente (1608). Anche qui non vi è, però, alcun “divertimento formale”. La dialettica è fra Nono e Banchieri, fra la quotidianità veneziana (attestata da registrazioni sul campo) e la denuncia della politica statunitense, interna (discriminazioni a danno degli afroamericani, assassinio di Malcolm X) ed estera (imperialismo e guerra nel Vietnam).
In composizioni come Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz o Contrappunto dialettico alla mente la scena è sempre ‘evocata’, mai rappresentata in modo naturalistico. “Nessun naturalismo populista o popular“: questa affermazione di Nono a proposito della Fabbrica illuminata vale sicuramente come principio generale. Non a caso i rumori e le voci degli operai dell’Italsider di Cornigliano diventano irriconoscibili all’ascolto. In Non consumiamo Marx, seconda parte di Musica-Manifesto n. 1 (1969) il clima delle manifestazioni operaie e studentesche è restituito all’interno di una costruzione rigorosa che procede per folate o, se si preferisce, per moto ondoso. Le manifestazioni di strada all’orecchio sembrano vere non solo per il field recording ma per la particolare rielaborazione a cui sono state sottoposte. Evocare significa anche ricreare.
Dal possibile rivoluzionario al silenzio
Per Nono compositore engagé l’impegno era un prolungamento della Resistenza: la liberazione dal nazifascimo proseguiva nella lotta per l’affermazione degli ideali di uguaglianza; occorreva dunque rimanere vigili e non abbassare mai la guardia contro le “garrote” del neocapitalismo ma di contribuire alla “liberazione socialista” (Musica e Resistenza, 1959; NF, 159). Poiché la sola testimonianza non bastava, serviva l’azione diretta in prima persona: da qui, allora, l’attivismo politico del compositore.
Si entra sempre nel canone, e qualunque sia l’ambito creativo di riferimento – dalla musica alla letteratura al teatro al cinema all’arte –, con un unico segno di riconoscimento, una sintesi-etichetta da prolungare a futura memoria. Ma se un segno e una sintesi possono contenere una qualche verità subiscono anche, facilmente, delle limitazioni che, nel caso di Nono compositore ‘impegnato’, hanno portato persino a porre in secondo piano la musica. Per Nono una musica, e così una qualunque opera d’arte impegnata, ha un senso e centra l’obiettivo a patto di mantenere un equilibrio fra “qualità tecniche” e principi ideologi. Il dovere dell’impegno va di pari passo con un altro dovere: coniugare coscienza creativa (studio, ricerca, inventiva, innovazione) e coscienza sociale di lotta.
L'”azione scenica” Al gran sole carico d’amore (1972-’74; rev. 1975), tributo alle lotte rivoluzionarie (il titolo è tratto da una poesia di Rimbaud, Le mani di Jeanne-Marie, ricordo di una ragazza comunarda) rappresenta sia il culmine dell’impegno ideologico sia un momento di svolta. Subito dopo, Nono vive un periodo di crisi, “un silenzio inesprimibile” che corrisponde al bisogno di riconsiderare il proprio “linguaggio musicale” e le proprie “categorie mentali”.
L’uscita dal silenzio coincide con … sofferte onde serene… (1976), a cui seguiranno Con Luigi Dallapiccola (1979) e Fragmente – Stille, An Diotima (1980). In fondo il cammino verso Prometeo inizia qui, prima ancora dell’avvio ‘ufficiale’ con Io, frammento da Prometeo (1981) e Das atmende Klarsein (1981), su testi assemblati da Massimo Cacciari, con il quale Nono stringe amicizia proprio durante quel silenzio. La loro collaborazione è un caso speciale, non solo per la musica italiana. Una sintonia analoga fra un compositore e un autore si può rintracciare nel sodalizio Berio-Sanguineti, i quali hanno lavorato insieme a più riprese nel corso di tre decenni (e quando Sanguineti non scriveva espressamente per Berio, Berio pescava comunque volentieri nell’opera del poeta). E` un vero peccato che le due coppie siano due esempi isolati. Berio-Sanguineti, Nono-Cacciari sono lì a ricordare le occasioni perse, tanto dai compositori quanto da coloro che hanno nella parola il proprio strumento espressivo.
… sofferte onde serene…, lavoro per pianoforte e nastro magnetico scritto per Maurizio Pollini (sono di Pollini anche le parti di pianoforte rielaborate su nastro), esce veramente dal silenzio. Nono annota che porsi in ascolto del silenzio è “molto difficile”. A maggior ragione, allora, il compositore, deve diventare, anzitutto, colui che ascolta. I primi suoni che a Nono si manifestano con una evidenza nuova – una sorta di epifania – sono quelli di Venezia, ascoltati nella sua casa alla Giudecca. (Quei suoni annunciano un nuovo campo di possibilità. Venezia, definita da Nono un “multiverso acustico”, si pone come il primo rispecchiamento di altri possibili multiversi acustici).
“Infiniti possibili” e “necessità dell’errore”
Una categoria fondamentale dell’intero percorso noniano è sicuramente quella del possibile. è soprattutto il possibile, che salda il Nono dell’impegno (la lotta per il possibile rivoluzionario) al Nono esistenziale-introspettivo dell’ultima fase. Non si afferma nessun individualismo. Piuttosto, una interiorizzazione che conserva un forte senso della comunità. Se viene meno la politica attiva, in Nono non va comunque persa l’idea della musica come testimonianza e denuncia. Quest’ultimo aspetto, semmai, prende una curvatura più metaforica (i potenti sono i “gelidi mostri” contro i quali lottano i caminantes della libertà; e Prometeo è un Wanderer sovvertitore di leggi, che “butta all’aria” quelle esistenti per sostituirle con altre). Poiché stiamo parlando di un compositore costantemente proiettato in avanti, il possibile coincide soprattutto con uno stato di tensione verso una musica sempre nuova, che si mantiene viva nella ricerca e nella sperimentazione.
Negli anni Ottanta la riflessione di Nono sulla categoria del possibile trova due riferimenti importanti in Musil (“Se esiste il senso della realtà deve esistere anche il senso della possibilità”; da L’uomo senza qualità) e in Wittgenstein (il quale afferma di sciogliere i nostri “crampi” mentali e concettuali, suggerendo possibilità alle quali solitamente non pensiamo; Della certezza).
Al possibile si aggancia la necessità dell’errore (ancora una volta il punto di partenza è Wittegenstein), vista come un ampliamento ulteriore dell’esplorazione. “Il lavoro di ricerca è infinito, infatti”, afferma Nono, mentre l’errore [anche inteso come imprevisto] è ciò che viene a rompere le regole” (L’errore come necessità, 1983; NF, 244). E se il lavoro di ricerca è infinito, il possibile si rivela, alla prova dei fatti, una pluralità sconfinata.
Fuori da ogni astrazione, gli infiniti possibili sono l’interrogarsi, il porsi continuamente in discussione, la ricerca del dubbio fino ad avere una ramificazione di soluzioni. Sono lo studiare su cui Nono tanto insiste negli scritti e nelle interviste, poi tradotto nella pratica compositiva in un intenzionale procedere per tentativi, anche in complice collaborazione con gli interpreti. Oppure si pensi ai lavori non fissati in modo definitivo ma lasciati flessibili e adattabili di volta in volta allo spazio esecutivo. Oppure, ancora, si consideri la revisione radicale cui il compositore sottopone i propri lavori (un esempio fra i tanti: la partitura di Prometeo, inizialmente di tre ore, ridotta di quasi una dopo la prova generale in vista della prima; la riscrittura ulteriore dopo la prima per approntare la versione definitiva. Un esempio significativo viene da Kremer, quando il violinista racconta del suo stupore di fronte alla versione di La lontananza nostalgica utopica futura pubblicata da Ricordi, completamente diversa dalla musica ancora inedita da lui eseguita in prima assoluta).
Prometeo, opera-arcipelago
La definizione di Venezia come “multiverso acustico” si trasferisce per intero in Prometeo. Tragedia dell’ascolto (1981-’84; rev. 1985) il momento più alto della poetica dei possibili. (“L’opus si fa in quanto compossibile in un multiverso di infiniti altri possibili…”, così Cacciari durante una conversazione con Nono.)
Prometeo, che si presenta come un’opera-arcipelago (cinque delle nove sezioni sono chiamate, per l’appunto, “isole”), dispiega una polifonia dei possibili. Il Prometeo di Cacciari-Nono raffigura un Wanderer, un esploratore del mare dei possibili in cerca di una rotta; ma cercare una rotta – se non la rotta – significa intanto seguirne altre (la figura di Prometeo-Wanderer è proposta dallo stesso compositore in una lunga conversazione con Enzo Restagno, una summa del Nono-pensiero contenuta nel volume monografico Nono, Edt, Torino, 1987, pp. 70-72). Lo stesso libretto preparato da Cacciari non procede in un’unica direzione ma è un vasto mosaico testuale che rielabora un gran numero di fonti diverse e che si conclude con un’apertura, quindi un nuovo inizio: le “molteplici vie” e i “molteplici silenzi” che attendono Prometeo e nei quali, anzi, egli già si trova.
Queste molteplici traiettorie si ritrovano anche nell’idea di “suono mobile“, in trasformazione e spazializzato attraverso il live electronics. Personificato, il suono di Prometeo sarebbe un Suono-Wanderer. Nono ha sempre tenuto un atteggiamento pesantemente critico verso le sale da concerto e i teatri perché ambienti che presuppongono una sola possibilità di ascolto: quella frontale. Da qui la richiesta a Renzo Piano di concepire uno spazio musicale apposito.
La struttura concepita da Piano è un’enorme cassa armonica, un “luogo-strumento” non chiuso ma in ‘espansione’ che nella morfologia richiama sia un liuto (luogo-strumento, appunto) sia una barca (legame simbolo con le isole di un arcipelago). Questo spazio non riflette il suono ma lo riverbera ed è in relazione con lo spazio circostante. In occasione della prima assoluta veneziana si sono verificate le condizioni ideali, in quanto la barca era stata montata nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo, scelta da Nono per gli “infiniti respiri” delle pietre (Nono, Verso Prometeo. Frammenti di diari, 1984; NF, 143).
In questo vagare del suono-mobile non si ha più un solo tempo percepito ma si hanno più tempi, o almeno questo era l’auspicio progettuale di Nono (“il tempo unico unificante scompare”). Per il compositore ciò che conta non è il “pulsare del polso” ma l’essere parte dei “segnali della ricchissima vita acustica dentro e fuori di noi”, grazie anche alla tecnologia, la quale serve a portare alle nostre orecchie una “stupita meraviglia”.
Ma perché allora, questo plurimo navigare del suono, è una tragedia dell’ascolto? La tragedia è nell’impresa stessa di Prometeo, nella sua ribellione agli dèi per sottrarre loro il fuoco e donarlo al mondo umano così da renderne possibile l’autonomia, e nelle conseguenze che egli ha dovuto scontare compiendo quel gesto. La tragedia è racchiusa in una semplice e, quella che pone in relazione, ma separandoli e tenendoli inevitabilmente distinti, il divino e l’umano. Prometeo non è un deicida ma attesta una distanza incolmabile: il polo del divino è l’impossibile, restano i possibili umani, infiniti proprio perché sopravanzano i limiti della nostra esistenza.
Viandante nella lontananza
Caminantes, no hay caminos, hay que caminar
(Viandanti, non avete strade, non vi resta che camminare.)
Quando Nono, in viaggio a Toledo, legge questa iscrizione del XIII sul muro di un chiostro, subito vi si riconosce e la fa propria. Nasce così il ciclo dei caminates: 1°) Caminantes… Ayacucho (1986-’87), su testo di Giordano Bruno (De la causa, Principio et Uno); 2°) No hay caminos. Hay que caminar… Andrei Tarkowskij (1987); La lontananza nostalgica utopica futura. Madrigale per più “caminantes” con Gidon Kremer (1988-89); “Hay que caminar” soñando (1989).
Come Prometeo cerca la rotta esplorando il mare dei possibili, così il viandante traccia la strada con il proprio cammino. La rotta marina o la strada su terraferma coincidono con il movimento e con l’ignoto (che Nono chiama anche l'”inaudito”). È un andare sempre oltre. Se il camminare in sé conta più della strada, il movimento conta anche più della meta. In questo senso la lontananza è utopica e futura: è sempre proiettata in avanti. Se è nostalgica, è per i possibili che imponendo ogni volta una scelta implicano che alcuni siano scartati a vantaggio di altri. Il sogno, invece, è lo sbocco di un desiderio che nella realtà è inappagabile: quello di sperimentarli tutti i possibili.
L’autentico viandante nel momento in cui percorre una possibilità vorrebbe moltiplicare sé stesso e percorrerne contemporaneamente altre. Questa può spiega come mai, per esempio, La lontananza nostalgica utopica futura, che prevede il violinista in cammino fra i leggii come fra le tappe di un viaggio, sia stato definito da Nono un madrigale per più caminantes, quando il caminante è uno soltanto.
La lontananza nostalgica utopica [futura]
mi è amica e disperante
in continua inquietudine.
Così scrive il caminante Nono. Ma rimane pur sempre la consolazione, forse persino l’appagamento del sogno, come attesta, già nel titolo, “Hay que caminar” soñando, che è anche l’ultima – ma sempre futura – stazione del percorso noniano.
settembre 2019 © altremusiche.it
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