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Dopo i precedenti Labirinti Musicali dedicati rispettivamente al romanzo storico (“La peste di Londra” di Daniel Defoe) e alla fantascienza (“Due racconti da Philip Dick”) ho voluto concludere questa mia immaginaria trilogia della quarantena – ciclo di tre puntate andate in onda tra l’aprile e il giugno 2020 su Radio Popolare e concepite durante il periodo del lockdown da Coronavirus – con un genere più “leggero” come quello del racconto erotico.
La scelta è caduta sullo scrittore argentino Manuel Puig, autore estremamente raffinato sia nel modellare la propria scrittura attraverso una ricchissima gamma di registri espressivi, sia nel delineare personaggi dal profilo psicologico estremamente sofisticato. Attraverso romanzi di difficile classificazione come “Il bacio della donna ragno” (“El beso de la mujer araña”, 1976) e “Pube angelicale” (“Pubis angelical”, 1979), Puig ha dato prova di essere uno degli scrittori sudamericani più creativi e intimamente liberi da ogni stereotipo geografico e di genere.
I brevi racconti di “Agonia di un decennio – New York ‘78” (“Estertores de una década: Nueva York ‘78”, 1978) disegnano dei piccoli acquarelli che rappresentano, quasi come un quadro realistico di Edward Hopper, alcuni spaccati dalla vita di una grande metropoli attraverso alcuni suoi teneri, quanto frivoli, personaggi che riversano sul lettore un profondo senso di decadenza della civiltà dei consumi, che, per esempio, anche Pasolini, dall’altra parte dell’oceano, metteva in evidenza attraverso altre inquadrature.
Dalle storie di Puig intuiamo come l’emancipazione sessuale (mutatis mutandis quindi anche la lotta per i diritti civili) non crei l’abbrivio necessario al miglioramento politico della società nel suo complesso. La crisi che, in particolare, attraversa la società americana degli anni ‘70 – per versi, tra loro, antitetici sia quella del Nord-dominante, sia quella del Sud-sottomesso – offre a Puig lo stimolo per raccontare storie apparentemente inconsistenti, ma dal sicuro significato politico, quasi come se si compiesse una mimesi di significati utili a varcare il limite del socialmente accettabile.
Puig crea nei suoi libri memorabili personaggi femminili (efficaci in quanto prodotti da una sua non celata volontà di immedesimazione) attraverso i quali parla di sé e del mondo, in un modo che arriva a essere ribelle o, se si preferisce, rivoluzionario in un senso evidentemente politico.
Ebbene sì, dietro a certi personaggi come la viaggiatrice di “A bordo del Concorde” o della Patsy di “Bar per donne sole”, le quali inondano i lettori con i loro inconsistenti, per quanto buffi sproloqui, si cela il desiderio di un mondo diverso, sicuramente utopico e/o irraggiungibile. Una fantasticheria degna di un grande autore sudamericano, che prima di rappresentare il mondo, ne delinea una sua visione fantastica.
A differenza del precedente Labirinto Musicale, ho volutamente affrontato la sfida di creare una moltitudine di personaggi a partire da una sola voce: la mia; aiutato forse, anche dalla sensazione di isolamento mentale che il lockdown – volenti o nolenti – ha determinato nella psiche di tutti noi. In altre parole i due personaggi femminili sono frutto del personale lavoro su entrambi i profili.
Puig può apparire forse un misogino che odia le donne e che vuole farle apparire stupide o frivole. D’altra parte la mia personale lettura dei racconti potrà ad alcuni sembrare una presa in giro del mondo omosessuale (ad esempio attraverso la rappresentazione caricaturale del mondo aeronautico). In realtà il gioco è il frutto di un incastro di diversi punti di osservazione, o se vogliamo, un gioco di pura confusione sessuale (per chi è in grado di coglierla): Puig parla di donne come se parlasse di sé in prima persona, io recito la parte di due donne come se fossi Puig, ma al tempo stesso cercando di accentuare in un senso ironico la mia posizione nei confronti del mondo femminile, dando, al tempo stesso, voce a una parte di me che, complice la mia solitudine, è scaturita quasi mi trovassi sul palco di un teatro o di un set cinematografico (“Don’t dream it, be it”, cantava qualcuno).
Entrando nel merito della costruzione del Labirinto, due erano gli ambiti musicali ineludibili per dare contorno ai racconti: il primo la koiné argentina di Puig che egli stesso ribadisce all’interno delle storie, il secondo è quello della cosiddetta No Wave newyorkese che si sviluppa come sottogenere del punk, proprio nel periodo storico a cui Puig fa riferimento (il punk stesso viene citato in altra sede).
All’interno di questa cornice, con il titolo “Orgasmi reali vs orgasmi musicali” si voleva raccogliere l’occasione di creare una playlist erotica trasversale, che mettesse in fila musiche cariche di sensualità.
L’oggetto che sta al centro della narrazione di “A bordo del Concorde” è un vibratore. Uno dei feedback più famosi della storia del pop è quello con il quale si apre l’intro di “I Feel Fine” dei Beatles, attorno al quale è cresciuto un mistero legato al significato di tale effetto, i cui contorni tecnici sono invece chiari: un feedback creato tra pick-up e amplificatore, che si affaccia per la prima volta nella registrazione di una canzone pop. Nel nostro racconto tale effetto, per anni definito come un “rasoio”, sembra invece assolutamente funzionale alla rappresentazione dell’accensione di un vibratore. I Beatles volevano evocare quella immagine o semplicemente gli era piaciuto quel suono e basta? A noi è sembrato perfetto iniziare un racconto erotico con una meravigliosa canzone che parla di amore e piacere, partendo da un effetto unico e penetrante per le orecchie di chi ascolta.
Come si diceva la playlist in questo caso si muove in assoluta libertà e mettere in successione l’inizio dell’Adagio molto – Allegro con brio dalla “Sinfonia n. 1 in do maggiore, op. 21” di Ludwig Van Beethoven potrà sembrare meno irriverente dell’inserire l’austero germanico in una trama narrativa che si lega al tema della masturbazione. Ma la tentazione di legare semanticamente quella doppia pausa di 1/4 + 1/8 incorniciata come una bolla di silenzio da una triplice ripetizione accordale di un tutti orchestrale e metterlo in relazione con la frase “non usurpa nessuno spazio” sembrava un modo efficacie di dar rappresentazione di due “spazi” molto distanti come quello vaginale (o anale) e quello del silenzio plasticamente individuato da Beethoven, scelto quest’ultimo nella parte di sé più pacificata e pastorale – per quanto crediamo che le sue sinfonie siano colme di elementi ormonali che esplodono qua e là.
Irriverenza per irriverenza, a Beethoven non si fa seguito con un più probabile e scontato Mozart, bensì con un brano ambient di stampo commerciale, tratto da una compilation “Chill House Erotic Buddha Lounge”, tirata dentro per merito dell’accenno sarcastico nei confronti di questo genere da parte dell’autore.
“L’incomunicabilità è roba degli anni Sessanta, vadano a raccontarla ad Antonioni”. Quale splendida occasione per poter inserire “Blues all’alba” del Giorgio Gaslini Quartet, parte della colonna sonora di quel capolavoro assoluto che è “La notte” di Michelangelo Antonioni, film nel quale si dipinge con un’assoluta maestria anche il mondo dei night-club milanesi degli anni del boom, con tutto quel carico di sesso e noia esistenziale che i protagonisti di quella pellicola vivono. Il blues di Gaslini non è forse una perfetta stilizzazione artistica di una musica da strep-tease con tanto di crescendo finalizzato alla rappresentazione plastica dell’ultimo indumento che vola via? Fateci caso…
Giuseppe Verdi e l’aria “Sempre libera” da “La Traviata” vengono citati apertamente, quindi inseriti nella maniera più lineare. Puig, grande appassionato di opera e istruito conoscitore di quel mondo, non si fa sfuggire l’occasione comica di mettere in relazione un finto orgasmo con l’aria virtuosistica (qui scelta nella sua cristallina interpretazione da parte di Maria Callas) che recita: “Sempre libera degg’io / Folleggiare di gioia in gioia, / Vo’ che scorra il viver mio / Pei sentieri del piacer”. Non è forse lecito pensare che anche a Verdi non fossero così estranei quei “sentieri del piacer” attraverso cui un essere umano si sente appagato? O, forse, dobbiamo continuare a considerare la cabaletta come una grande dimostrazione di virtuosismo vocale senza relazioni intime con una dimensione puramente sessuale? “Follie! Follie! Delirio vano è questo!” – scriveva Piave!
L’immagine con cui si conclude il primo racconto, ha personalmente evocato la folle corsa delle due protagoniste del film “Thelma e Louise” di Ridley Scott, da cui è stato preso in prestito “Mercury Blues” di David Lindley, un muscolare e volitivo brano chitarristico in puro stile yankee. La Mercury non è un Concorde, ma il senso è quello. Aggiungere qualcosa al senso fallico di un assolo di chitarra elettrica (slide, compressa e distorta) sembra abbastanza superfluo.
“Bar per donne sole” inizia con il fruscio di un vecchio disco che conduce a “Mi carta (Querida)”, un bolero di Mario Clavell che contrappunta parte della raccolta di racconti di Puig, il cui incipit, riportato pari pari, mi ha offerto la possibilità di cantare in modo sbracato e casalingo sopra la voce di Hugo Romani. L’io-narrante sembra steso sul divano in modo pigro e svogliato, quando, ad un tratto suona il telefono, dietro al quale fa la sua comparsa la seconda figura femminile in questione, la Patsy che deve trovare sfogo nel raccontare un suo inconsistente incontro della sera prima.
La voce femminile è stata resa in questo caso, alzando quella naturale di due semitoni e producendo in questo modo una maggiore credibilità del timbro delle corde vocali.
In questo racconto si parla di bar, quindi di vita sociale cittadina che, come si diceva precedentemente è stata messa in relazione con la No Wave newyorkese di quegli anni. Ecco allora che nel bar si sente la musica di Lydia Lunch, una delle più interessanti artiste di quella scena, pregna di una certa componente autodistruttiva, al pari dell’omologo e antesigano punk britannico. “Suicide Ocean” è la canzone che vuole qui rappresentare quel mondo, per quanto possa apparire surreale ascoltare un brano del genere in un bar per incontri (anche questa è una fantasia).
Chi poi meglio delle New York Dolls – precedendo con il loro singolo di successo “Personality Crises” anche il Rocky Horror Picture Show – hanno incarnato il sogno di emancipazione di tanti travestiti in conflitto con dogmi sociali e complessità della propria personalità? Puig certamente avrà sorriso di fronte a certi personaggi, forse non apprezzati sul piano musicale. Però l’ironia c’è tutta, quindi nel gioco entrano anche loro.
Altro personaggio cardine della No Wave è stato Arto Lindsay con i suoi DNA, ma mi ci è piaciuto inserirlo con un brano del compositore brasiliano Cartola, “Fita os meus olhos” (in realtà “Rolam meus olhos”) tratto da “Der Mann im Fahrstuhl / The Man In The Elevator” di Heiner Goebbels. Un deciso modo di assecondare un certo cosmopolitismo tipico della poetica dell’arte puighiana, nonché una brusca virata verso l’America del Sud nel finale di puntata, che ha modo di coinvolgere le due più importanti personalità del vecchio e del nuovo tango argentino: Carlos Gardel (“Rubias de New York”, brano citato in un altro racconto di Puig) e uno dei cavalli di battaglia di Astor Piazzolla la “Milonga del Angel” (alla chitarra José Maria Gallardo Del Rey). Entrambi, seppur da punti di vista diversi, accomunati da una profondissima sensualità.
Sul finale del racconto ho costruito un ulteriore piccolo effetto il cui significato viene lasciato alla fantasia degli ascoltatori (sugli altri non mi sono dilungato in questa sede, dato che sono facilmente riferibili al contesto “scenico”: sottofondo di aereo, “captain speaking”, vibratore, telefono, manipolazioni sonore su “Mi carta (Querida)” attorno al testo “New York estraña”, ecc…).
Concludo con le parole di Puig tratte da “Pube angelicale”, che rendono meglio di qualunque altra considerazione il senso della dialettica mascolino/femminino che la natura ha dato al genere umano (e non solo):
Un mondo fatto da donne dovrebbe essere come un duetto di Fiordiligi e Dorabella in Così fan tutte, un mondo dove tutto è grazia, scioltezza, leggerezza. Niente di meglio della musica di Mozart per suggerire un mondo armonioso, a cui si sia nati per godere ogni minuto della nostra esistenza. Se gli uomini avessero più musica nel loro cuore, più Mozart, il mondo sarebbe diverso. Ma tutto il bello ce lo accaparriamo noi, a loro è toccato tutto il brutto, gli abbiamo fregato tutte le cose buone. E loro felicissimi della mondezza che è rimasta.
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