Filippo Del Corno: nuovi pubblici per nuovi concerti

Michele Coralli

Filippo Del Corno, compositore, organizzatore e animatore del gruppo Sentieri Selvaggi, ensemble che si è ormai ritagliato un significativo spazio all’interno dell’area che rivolge la sua attenzione alle Nuove Musiche contemporanee, è uno di quei musicisti che dimostra di voler superare quel deleterio atteggiamento di contrapposizione determinatosi all’interno delle nostre accademie tra nostalgici dell’avanguardia e neo-romantici. Dopo aver condiviso nel bene e nel male le sorti del secolo che ci siamo lasciati alle spalle, oggi la negazione degli uni nei confronti degli altri e viceversa sembra frutto di un revisionismo storico di matrice unicamente ideologica. Quella che segue è una riflessione serena su come, anche all’interno della nicchia della musica contemporanea, stiano cambiando gusti, pubblici, mode e progetti.

Partiamo da alcuni punti fermi della programmazione musicale di Sentieri Selvaggi per vedere come stanno evolvendo le cose in questo ambito.

«Sicuramente il nostro punto più fermo è rappresentato dal nostro festival che si tiene a Milano ogni primavera e che ogni anno ha un nucleo tematico preciso. A nostro parere l’unica maniera che la musica contemporanea ha di radicarsi nella società è quella di affrontare temi che riguardano tutti da vicino. In quest’ottica la musica non è soltanto un’espressione astratta di abilità compositiva, ma una forma di espressione culturale che inevitabilmente sa confrontarsi con quello che le succede attorno, con motivazioni e tematiche che hanno a che fare con la storia, la cultura, la politica e la società. Questo per noi è molto importante e non è un caso aver intitolato il festival di quest’anno “Est”, in un momento in cui la spinta verso l’Est europeo è molto importante e molto avvertita soprattutto dal punto di vista economico per via dell’allargamento dell’Unione Europea. Di fatto però dell’articolazione culturale di quei paesi ne sappiamo ben poco e una maniera per avvicinarli è quella di cercare di capire che musica si scrive in questo momento in quei paesi, quali sono gli autori di riferimento, quali sono le tematiche che attraversano gli autori. Per esempio ci siamo resi conto che all’Est la componente religiosa nell’ispirazione musicale è fortissima. Per noi questo risulta quasi incomprensibile, perché nella tradizione musicale eurocentrica l’ispirazione religiosa è quasi completamente scomparsa, se non in fenomeni piuttosto residuali. Invece a Est è una vena fortissima. Il rapporto che poi hanno i compositori dell’Est con il proprio passato diventa anch’esso molto istruttivo, perché esiste una nostalgia con la matrice popolare molto più pronunciata che all’Ovest. Ed è una nostalgia che non ha nulla di nazionalistico o di regionalistico, ma consiste nella capacità di avvertire la potenza delle radici culturali ancestrali».

Pensi che all’interno del mondo istituzionale che organizza i concerti, ma anche di quello che insegna la musica, ci sia attenzione nei confronti di autori come quelli a cui ti riferisci? Pensiamo a Kancheli o Pärt, tanto per fare dei nomi.

«Da parte delle istituzioni italiane ce n’è pochissima, perché le istituzioni italiane sono schiave di un modo di considerare la musica contemporanea estremamente accademico. In questo modello, che risale ad una trentina di anni fa, si è imposto una sorta di pensiero dogmatico dell’espressione musicale contemporanea come di qualcosa sempre sperimentale. Da qui è sopraggiunta quella scissione tragica, nei confronti della quale i protagonisti di quella stagione non si sono mai misurati realmente. A causa di questo poi il pubblico ha abbandonato ogni forma di confronto con un’espressione musicale che ormai sentiva completamente estranea. Secondo me bisogna stare molto attenti, perché non è un fatto di semplicità o di difficoltà del linguaggio. In altre parole non è che occorra scrivere una musica semplice “per piacere alle masse”. Questo è ridicolo, assurdo, controproducente e anticulturale. Nonostante avvenga quotidianamente in Italia e nel mondo, noi non abbiamo niente a che fare con questo fenomeno. Il presupposto sbagliato è che si pensa che lo strumento attraverso cui il pubblico può capire e incontrare un discorso complesso è quello del concerto organizzato secondo le dinamiche della musica dell’Ottocento. Quello che io rimprovero alla stagione delle avanguardie è di aver perpetrato lo stesso rito del concerto ottocentesco, veicolando dei contenuti che non erano più quelli di quella musica e anche rivolgendosi a un pubblico che era integrato nella dimensione ottocentesca e romantica del fare musica. Si è allora verificato questo iato, questa divisione, che non è ancora stata ricucita».

Per spezzare una lancia a favore dell’avanguardia, voglio però ricordare ambiti “innovativi” entro cui sono stati portati contenuti musicali sperimentali, per determinare una nuova dinamica di fruizione tra pubblico e compositore, penso alle esperienze dello Studio di Fonologia a Milano con Bruno Maderna e Luciano Berio e in particolare a opere pensate per il mezzo radiofonico come “Ritratto di città”…

«Naturalmente, ci sono state tantissime esperienze diverse e noi non abbiamo nessuno rifiuto nei confronti degli autori della stagione delle avanguardie. Alcuni poi ci piacciono moltissimo e li eseguiamo anche molto. Il punto è che non si voluto leggere, dal punto di vista della sociologia dell’espressione spettacolare il fatto che non si può ripetere all’infinito il modello del concerto ottocentesco, travasandoci dentro contenuti di forte carattere sperimentale e innovativo, perché il contenitore non regge poi il contenuto. Il nostro modello di concerto, che adesso vediamo imitato da molti, non il concerto di Beethoven con tanti colpi di tosse tra i movimenti, ma, al contrario, delle esibizioni con introduzioni molto semplici e dirette finalizzate ad allontanare qualsiasi spazio tra la musica e il pubblico. Questo modello io credo che aiuti molto a entrare in sintonia anche con linguaggi molto complessi, perché non ci si mette su un piedestallo. Ricordo un pezzo di Stockhausen che avevamo eseguito durante un nostro concerto. Io mi ero preparato una presentazione molto legata al pezzo, ma quando sono salito sul palco per introdurlo mi sono ricordato dell’atteggiamento nei confronti di Stockhausen del pubblico milanese di fronte a opere come Licht. Per molti Stockhausen è diventato sinonimo della musica contemporanea incomprensibile. Allora ho detto: “Molti di voi, leggendo il nome di Stockhausen avranno un’idea di cosa sia la musica di Stockhausen, ma la vostra idea è lontanissima dall’idea della musica di Stockhausen, perché non ne avete mai ascoltata una sola nota.” Era la verità perché poi il pezzo è stato molto apprezzato dal pubblico. Per cui il problema non risiedeva nella musica di Stockhausen, ma in quello che si era creato attorno al nome di Stockhausen».

Allora il vizio è istituzionale, più che di contenuti. Del resto molti sono portati a non tenere più distanti gli ambiti dell’avanguardia e di tutti quegli sviluppi neotonali, che, in un modo o nell’altro, sono figli di quel tipo di atteggiamento. Spesso la contrapposizione tra le due “aree” diventa quasi una questione politica…

«O ideologica, certo. Quello che io sostengo da anni è che l’unico criterio con cui si può dividere la musica sia quello del suo interesse per chi l’ascolta. Nel senso che la musica può essere interessante o non interessante. Noi cerchiamo di proporre delle musiche che crediamo possano interessare chi ci ascolta. Non vogliamo assecondare i gusti del pubblico, né punirli, ma semplicemente di solleticare la curiosità nei confronti di espressioni musicali diverse e lontane tra loro. Del resto il nostro pubblico non è un pubblico musicale in senso stretto, ma magari segue anche il teatro, il cinema e altre forme artistiche. Quindi è molto lontano dalle controversie che hanno animato il mondo della musica contemporanea, oltretutto ridicole in quanto chiuse in un orto piccolissimo».

Frequentare percorsi inusuali induce a scoprire anche nuove dimensioni musicali…

«Sì, questa è la cosa più gratificante. Ci siamo accorti che molte persone ai nostri concerti fanno delle scoperte, ma anche a noi capita la stessa cosa, quando ci innamoriamo di autori o esperienze compositive. E’ capitato per esempio con Andriessen, che è un compositore ancora tutto sommato poco conosciuto in Italia rispetto al suo valore. La stessa cosa vale per Galina Ustvolskaya e molti altri…».

I repertori delle stagioni concertistiche sono troppo chiusi nella tradizione ottocentesca. Secondo te come si fa a cambiare questa tendenza all’interno delle istituzioni?

«Bisognerebbe che si aprissero ai gruppi non tradizionali. Non ha nessuno significato chiedere ad un pianista classico che fa Beethoven o Liszt di inserire un pezzo di musica contemporanea e dire di aver fatto in questo modo anche la musica contemporanea. Anche se questa è la strada che continua ad essere seguita, non si può pensare che solamente il grande esecutore debba veicolare la Nuova Musica. Occorre invece un atto di coraggio che riconosca che c’è qualche cosa di nuovo, che può interessare a un pubblico nuovo e che il tutto passa attraverso nuove modalità performative. Il pubblico che va a sentire un interprete di Beethoven e si ritrova un pezzo di musica contemporanea, avverte questo come un corpo estraneo. Credo che piuttosto che convincere l’ascoltatore di Beethoven che esiste anche MacMillan, sia più interessante il processo inverso, ovvero convincere l’ascoltatore di MacMillan che esiste anche Beethoven».

giugno 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli

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