- Robert Wyatt: “Dondestan” - Ottobre 21, 1997
- Cassiber: “A Face We All Know” - Ottobre 23, 1996
- PFS: “279” - Ottobre 4, 1996
L’intervista che qui presentiamo rappresenta un po’ il coronamento di un’attenzione nei confronti di questo singolare musicista che, nel caso di alcuni di noi, dura dall’inizio degli anni ’80, quando apparve il primo disco dei This Heat. Ma partiamo dall’inizio.
Nel 1968 Hayward entra a far parte, con Phil Manzanera e Bill Mc Cormick, dei Quiet Sun, con cui realizzerà il suo primo disco solo qualche anno più tardi, nel 1975. Nel frattempo milita in vari gruppi di matrice progressive, il più famoso dei quali è quello dei Gong, con cui si presenta in una tournée nel 1972. Lo stesso anno conosce il chitarrista Charles Bullen, con cui fonda prima i Dolphin Logic, poi i This Heat, nel 1976. A loro si unisce anche Gareth Williams. Il primo disco è del 1980 e porta il nome del gruppo; è realizzato con materiale registrato in studio e dal vivo fra il 1976 e il 1978. Dell’anno seguente è Deceit. Due lavori assolutamente imperdibili (ristampati da Recommended) per gli aficionados delle cosiddette musiche eterodosse, ma anche per tutte le persone che hanno intelletto di musica e che vogliono azzardare un rischio di cui non si dovranno mai pentire. Prevalentemente strumentale, con sonorità del tutto inconsuete e un percussionismo assolutamente creativo il primo; più orientato verso la forma canzone (il senso non restrittivo) e parzialmente più accessibile il secondo. Nell’insieme forse quanto di meglio sia uscito in quel periodo nella scena musicale inglese in quel periodo, nonché un patrimonio musicale ancora da scoprire del tutto.
«Quando lavoravamo tutti insieme nello studio – ci ha detto Hayward nell’intervista – producevamo suoni così strani da far paura. Era un’esperienza molto particolare».
Poi il gruppo si è sciolto, a causa delle aspirazioni egemoniche (“fasciste” dice Hayward) che ciascuno dei membri aveva sugli altri. Nel periodo successivo Hayward suona con i Camberwell now, con cui ha modo di approfondire le sperimentazioni in sede di registrazione e missaggio, oltre a far maturare la natura visceralmente ritmica e vocale della sua musica. Due, e notevolissime, le testimonianze su vinile: The Ghost Trade e Greenfingers (quest’ultimo a 12″). In questi ultimi anni Hayward ha collaborato ad alcuni importanti progetti nell’ambito delle musiche innovative (Chenevier, Frith, Cooper e Gobbels, per fare solo alcuni nomi) e ha dato il via a una carriera solistica da seguire passo a passo. Survive The Gesture, del 1988, ne è stato il primo e felicissimo capitolo. Disco che affianca canzoni a brani di carattere sperimentale, è, a nostro modo di vedere, una delle cose più belle e intense di quegli anni. Skew-whiff e Switch On War sono lavori più indirizzati a una ricerca sonora non confinabile a un solo genere o ambito musicale, qualcosa che sta ai confini con la pittura e la drammaturgia. Slang Sign è invece il nome dell’ultimo progetto di Hayward: il nastro che ci ha dato, e che raccoglie alcuni brani presentati dal gruppo in concerto, esprime una grande vitalità musicale e la volontà di tornare pienamente alle due componenti che più hanno caratterizzato fin qui il lavoro del musicista, la voce e il ritmo, facendo leva al contempo su ciò che vi è di idiomatico e di universale nella musica.
Abbiamo incontrato Charles Hayward a Milano nell’aprile del 1991, in occasione della sua mini-tournée con LA 1919. Il discorso si è tortuosamente snodato lungo le molteplici attività del musicista inglese, toccando vari argomenti e problematiche e seguendo un flusso di pensieri non sempre sistematico: questo a causa di un’evidente propensione, da parte di Hayward, all’associazione di idee, al collegamento repentino, al brusco salto logico. Quasi un riflesso discorsivo della varietà di approcci musicali e della vivacità artistica di questo anomalo cantante-batterista-polistrumentista di Londra. Per questa ragione abbiamo preferito, al consueto ordine domande-risposte proprio dell’intervista, lasciare libero corso alle parole di Hayward, con brevi interventi esplicativi a introdurre le varie parti in cui è stato diviso il discorso, seguendo un criterio elasticamente tematico.
MUSICA, CATEGORIE, MERCATO
Abbiamo chiesto a Hayward quali sono le principali difficoltà che un musicista come lui incontra oggi sulla scena britannica, in un momento non molto favorevole a chi non è facilmente riconducibile a generi e situazioni musicali ben delimitate.
«Il problema principale, da quello che posso capire, riguarda da vicino la definizione di cosa è la musica. La gente spesso mi chiedo che cosa faccio. E se questo non rientra in una categoria o se rientra in una categoria che al momento non è credibile a livello di massa, allora non trova spazio. Mi sono state rivolte domande, prima ancora che terminassi un disco, del tipo: sarà buono? venderà molte copie? Un giorno un amico mi ha chiesto: che ci fai nel rock? Sono stato a HMV [Her Master Voice, negozio di dischi a Londra] e ti ho visto nella sezione del rock. Se tu invece facessi del merchandising o del marketing a Thames water authority – un brano molto lento e tranquillo che ho pubblicato [su Skew-whiff] – se tu lo collocassi fra la musica contemporanea, la gente lo comprerebbe. Invece nessuno sa che è là, nel rock. D’altra parte gli amanti del rock non ne vogliono sapere, lo trovano noioso. Mi chiederebbero: che cosa ci fai nella musica contemporanea, d’avanguardia?
Tim Hodgkinson, per fare un altro caso, può suonare la sua chitarra hawaiana, che è la più grande macchina di rumori del mondo, oppure dei motivi molto romantici. Questo è ciò che è lui: una di quelle persone che non sono etichettabili, e il cui sound non è ‘oh, questa persona lo usa in modo dissonante, quest’altra invece lo impiega armonicamente’. Si tratta di musicisti che fanno uso di elementi sempre diversi. Un giorno si danno all’improvvisazione, un altro non improvvisano affatto. Tutto questo non è gradito al mercato britannico.
La scena indipendente è per lo più una farsa, è fondamentalmente subalterna, ricerca lo sviluppo dell’immagine ed è più che altro interessata allo ‘stile’. Ognuno, al suo interno, ha idee ha idee molto radicate su come deve o non deve essere utilizzata la tecnologia. Ti dicono: se non usi la tastiera giusta o la giusta drum-machine la tua musica non ha più valore.
Secondo me ci sono poche persone in Gran Bretagna in grado di dimostrare che è possibile essere profondi e coinvolti emozionalmente nella musica e ciò nonostante raggiungere una vasta platea. Ad esempio Christy Mooore, cantante di folk irlandese [negli anni ’70 era nel gruppo di folk revival dei Planxty], che suona in una band chiamata Moving Heart e che può esibirsi per sei-sette sere al Dominion, un teatro londinese molto grande; Kate Bush, che lavora con Donald Lunny [anch’egli ex Planxty], un grande musicista irlandese. Lei è interessata al pubblico, ma allo stesso tempo è se stessa. Cambia da un anno all’altro, si evolve, ma non necessariamente verso ciò che ci si aspetta da lei; gente come Eno, che va rispettata per i suoi modi diversi di fare musica, sempre risolti in suoni differenti. Il suo è un lavoro importante. Ora però è considerato solo il produttore degli U2, e ciò è molto triste.
In Gran Bretagna c’è ancora qualcosa da fare, da sviluppare dal punto di vista musicale, qualcosa che ha a che fare con il ritmo peculiare della lingua. E questo nonostante molti gruppi attraversano momenti difficili nel proporre la loro musica nel loro paese. Tim è dovuto andare all’estero per incidere alcuni dei suoi dischi; anche Chris Cutler ha passato periodi difficili nel fare le sue cose. A volte c’è del buon materiale, ma esce solo tre anni dopo essere stato prodotto, ammorbidito e reso più commerciale. Tim, Moore, Evan Parker: persone che non suonano assieme, ma che sono tutte decise nel proporre le loro scelte musicali. E questo per la musica è un bene».
WORK E THIS HEAT
Abbiamo parlato del gruppo di Hodgkinson, i Work, che nei primi ’80 era in stretto contatto con i This Heat (incidevano nella stessa sala, l’ex mattatoio Cold Storage a Londra) e che nell’1989 ha pubblicato il bellissimo The Rubber Cage.
«Non mi piacciono particolarmente i Work, ma li ammiro, rispetto il loro lavoro perché non si fermano, perché provano, ricercano, vogliono quel suono, perché sanno quello che vogliono. Come musicista li ascolto, non spesso, ma li ascolto. I Work e i This Heat fecero due o tre concerti insieme, e l’effetto nell’audience (che mi interessa più d’ogni altro aspetto: se vado a un concerto, passo la metà del tempo a guardare il pubbblico, per vedere che effetto fa il suono alla gente) fu che dopo due o tre ore ore il pubblico era completamente esausto, isterico. C’era sicuramente una somiglianza fra i due gruppi, entrambi erano quasi al margine e le le loro musiche sono in qualche modo confrontabili».
SPERIMENTAZIONE, TECNOLOGIA O RITORNO AL PRIMITIVO?
«La musica d’arte occidentale è sempre stata molto letteraria; riguarda il raccontare una storia, dare un giudizio morale e così via. Per me invece la musica è come una medicina, o come fare all’amore. E’ una cosa che riguarda essenzialmente il corpo. Ciò che ammiro nella musica irlandese o in quella greca, ad esempio, è la risposta che esse danno alla tecnologia moderna: se ne avvalgono pur mantenedo intatta la propria identità.
Qualche tempo fa ero ad Amsterdam, camminavo da solo e a un certo punto ho guardato in alto l’insegna di un negozio, che mi ha fatto venire in mente un’altra insegna di un negozio nel sud di Londra. Quando sono nate, probabilmente, queste costruzioni? Dopo la guerra; entrambi questi posti sono stati distrutti dalle bombe e poi ricostruiti. E’ come essere senza una cultura propria, abbiamo buttato via un sacco di cose e siamo diventati americani, anonimi europei, piccoli numeri nelle ricerche di mercato. Cosa dobbiamo fare? Cercare di tornare indietro con atteggiamento nostalgico non è una buona cosa. Dobbiamo, secondo me, ricominciare da capo, e ricominciare da capo significa vedere cosa accomuna le persone in questa stanza alla gente in India o in Australia. E’ il battito del cuore, l’atto di respirare, il fatto che abbiamo due gambe e non tre. E’ il modo con cui ci si rapporta al ritmo. A Londra insegno in una scuola di musica per giovani. L’altro giorno uno dei miei studenti, sempre più preso dalla musica, era pieno di entusiasmo per aver sentito a Londra una banda militare, con il tamburino che segnava il ritmo. ‘E’ fantastico – mi diceva – assolutamente fantastico…’.
La dimensione stessa delle tue labbra, quella del torace ci dispongono naturalmente alla musica. E’ un qualcosa di molto di elementare, che ho sperimentato ad esempio col dub-reggae, quando sono andato a sentire un buon sound-system a Londra, con gli acuti che ti tagliavano le orecchie e i bassi che ti colpivano allo stomaco. Da lì puoi andare più lontano: puoi ottenere diverse figurazioni ritmiche, lavorare in dodicesimi e interagire con un tempo di 3/4. Oppure usare i 7/8: sei in attesa dell’ottavo, ma arriva prima di quando te lo aspetti [mima una faccia che sbatte contro una finestra chiusa]. Con il 9/8 aspetti che accada e sei già andato oltre [la faccia stavolta oltrepassa la finestra e si ritrova nel vuoto]. Puoi ottenere suoni dissonanti o combinazioni armoniche, puoi giocarci, mischiare le carte, variare. Cos’è tutto questo? Sperimentazione, ritorno al primitivo o semplice espressione emozionale? Mi avvalgo dei vecchi modelli, sono interessato a ciò che è già stato usato e scartato, uso gli ‘errori’ della tecnologia. Non amo ciò che è perfetto, amo l’imperfezione.
Credo di essere molto primitivo, e mi avvalgo di strumenti primitivi come il tamburo e la voce. La gente mi dice che faccio musica sperimentale, d’avanguardia, ma è un’etichetta che non mi piace, non mi si addice. Cerco di unire tra loro elementi diversi: la mia infanzia, l’amore per la mia donna, il brivido della musica. Queste sono le cose che cerco di collegare, non le grandi idee. A volte mi capita di camminare per strada canticchiando il nuovo motivo a cui sto lavorando, e i motivo si associa al ritmo dei miei passi, del mio respiro. Anche mio figlio è una grande fonte d’ispirazione per me. Survive The Gesture l’ho fatto quando mia moglie lo aveva dentro di sé. E’ essenzialmente un album di canzoni. La seconda parte, da This misunderstanding a Australia, è per me un’agenda segreta, una chiave emotiva che mi ha permesso di fare la musica. This misunderstanding è stata scritta e cantata da Lew Evans, il padre di mia moglie. Questa è l’unica canzone che lui abbia mai scritto, e ha settantatré anni. E’ fantastico, un segno che si può sempre iniziare. Tutto questo ha un effetto particolare su di me, un anziano che canta, la voce di un vecchio… Australia parla di un addio a un amico all’aeroporto, ma per me è una metafora: ho scritto quella canzone due giorni dopo la morte di un amico. Non ha importanza che altri lo sappiano, è importante per me. Io misuro me stesso con la mia musica, ciò che mi è successo e che potrebbe succedere anche ad altre persone».
MUSICA, PAROLE E POESIA
«Amo molto la musica, il suono, ciò che si produce con le dita, ma amo di più le parole. Il mio primo pensiero, componendo un brano, sono le parole, il trasmettere immagini con le parole. Qual è la differenza fra la melodia fatta da un uccello e una fatta da un uomo? Che l’uomo può aggiungere le parole, dire qualcosa. Lester Banks, un famoso giornalista statunitense, ha descritto Captain Beefheart come colui che riesce ad esprimere le ‘parole rivelate’: se in una sua canzone una parola ha un significato ben determinato, questo significato viene subito compreso. Sembra che faccia una lezione di anatomia su quelle parole e la stessa parola, in un’altra canzone, pronunciata in modo diverso, sarà interpretata diversamente. C’è un eccezionale rapporto fra le parole e la melodia.
Sono capace di diventare matto con i versi delle mie canzoni, di passare notti intere, fino alle quattro alle cinque alle sei di mattina a scrivere parole, magari sempre le stesse, gli stessi versi, lavorandoci su di continuo, in modo ossessivo. Mi piace. Alle volte ho in mente un significato, un sentimento da trasmettere; la melodia va bene, eppure qualcosa non funziona. Allora cambio l’ordine della parole, la posizione o il tempo di un verbo, lo metto ad esempio al participio passato per dire la stessa cosa. Così devo cambiare anche la melodia, che magari non sarà più pura come prima, ma preferisco così.
Ti dirò ora un segreto: io ho scritto poesie. Un tempo lo facevo, poi mi sono detto: la poesia come forma è morta, la poesia è ormai nella pubblicità, in alcune canzoni, nei film, in Twin Peaks, eccetera, e non è più nella ‘vera’ poesia. A volte cammino con mio figlio, e lo porto in chiesa, perché c’è della verità nella chiesa, anche se c’è della verità pure in ciò che la gente dice, che la chiesa è morta, che deve essere distrutta, che Dio è morto. Nonostante ciò dentro la chiesa c’è ancora verità, e se Dio è morto, allo stesso tempo è ancora vivo. Quando ascolto della grande musica è come quando avevo sei anni e andavo alla cattedrale. C’è qualcosa in me che riguarda questo senso di mistero: perché dovrei negare tutto questo a mio figlio?
La stessa cosa è per la poesia. E’ qualcosa di accademico, legato ai libri in un’epoca visuale. Ed è vero che è morta, così sia! Non parlo di John Cooper Clark o della poesia beat, ma di poesia come quella di Gerard Manley Hopkins. E’ morta, ma allo stesso tempo vive. Per questo cerco di fare poesia. Per questo per me le parole sono un’ossessione più grande della musica».
PAROLA CANTATA E PAROLA PARLATA
Abbiamo chiesto a Hayward se in Skew-whiff fossero presenti influenze della musica rap. Ecco cosa ci ha risposto.
«Io non amo la parola ‘parlata’ nella musica, mi piace la parola ‘cantata’. Ho lavorato con Heiner Goebbels nel suo The Man in the Elevator [album che ha come base una parte di una pièce teatrale di Heiner Muller], ho fatto un intero viaggio in aereo da New York litigando con lui a tale proposito. Non mi piace la parola parlata nella musica, è robaccia. Però, una volta che ho affermato ripetutamente una cosa in pubblico, sono come obbligato a fare il contrario. Se mi sono dato una regola, devo infrangerla, altrimenti questa regola mi impedisce di raggiungere determinate cose. Ecco perché ho fatto questi due pezzi di rap [The Actor Merges with the Crowd e Cold Blue Sun]. Poi c’è anche il fatto che io insegno in una scuola per ragazzi, ragazzi neri. Una volta uno di loro mi ha chiesto: pensi che io sia inglese? e io gli ho risposto: certo che sei inglese, sei nato in Inghilterra! Poi invece fanno gli americani, parlano come americani [imita l’accento statunitense, con la cadenza tipica del rap]. Be’, ho voluto fare del rap britannico. Ho voluto confrontare il mio stile con quello tradizionale, eludendo le aspettative del pubblico».
PROGETTI
«Il prossimo disco, intitolato Switch on war, è sulla guerra del golfo, una sorta di cenotafio, di ricordo dei caduti. Insieme a Skew-whiff fa parte di un progetto che comprende anche un altro lavoro, messo in scena solo tre-quattro volte: un’ora di canzoni scritte con un amico, che sta per diventare padre, e che usa l’idea di partenza, crescere un bambino, come spunto per parlare di altri problemi come la sovrappopolazione, la miseria, l’infelicità. Di una di queste canzoni, The Fugitive, ho scritto le parole a quattordici anni e la melodia a sedici. Col gruppo, che si chiama Slang Sign, abbiamo fatto alcuni spettacoli in fase di sperimentazione. Alcune volte eravamo in sette, altre in quattro, con un organico di cui potevano far parte tre batteristi, un chitarrista, basso, tastiere e clarinetto».
GLI INIZI
«Ho iniziato a suonare la batteria a dieci anni, per caso. Mi avevano fatto un regalo stupido; ho buttato il regalo e ho tenuto la scatola, ho preso le frecce di mio fratello come bacchette e ho costruito il mio primo drum kit. I miei mi hanno sempre incoraggiato a suonare il piano, fin dall’età di tre-quattro anni. Ma quando ho iniziato a suonare la batteria è successo qualcosa di straordinario. Portavo la batteria nella stanza in cui c’era la televisione: mio padre adorava il jazz e io potevo suonare accompagnando Count Basie e Duke Ellington in televisione. I primi batteristi che mi sono piaciuti son stati Sam Woodyard, il batterista di Duke Ellington, e il batterista degli Shadows. Quando avevo dodici anni una sera, anziché dormire, ascoltai gli Who su Radio Luxemburg che cantavano Anyway anyhow anywhere: feci accorrere i miei da come mi misi a gridare. Era fantastico.
La batteria è uno strumento molto corporeo, attravesro cui puoi esprimere la tua sessualità. Per un certo periodo pensai che suonare la batteria significasse avere tecnica, suonare velocemente; poi cambiai idea e dimenticai tutto quello che avevo imparato. Poi, in seguito, ho cominciato a frequentare gente che aveva molta tecnica e ho dovuto imparare tutto di nuovo».
da: “Auditorium” n.8 1991 e Andrea Coralli, “Navigando sui mari di formaggio”, Auditorium Edizioni 1996 © Michele Coralli
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