Giovanna Marini: una voce per ricordare

Michele Coralli

1960: Giovanna Marini è a Roma per eseguire Bach con il suo bagaglio culturale colto di fronte alla platea del Folkstudio che richiede gli stornelli romani (“Non sapevo nulla appena uscita dal Conservatorio, se poi aggiungiamo il fatto che feci la scuola dalle suore, l’ignoranza che si determinò in me fu davvero spaventosa!”)

1994: in Calabria per assistere ad un pellegrinaggio di battenti (gli autoflagellanti che si infliggono ferite che sanguinano inverosimilmente): “Ma siete matti! Siamo nel Duemila… c’è l’AIDS!”

1970: concerto al Teatro Instabile di Napoli, la ricerca di un magnetofono a spettacolo iniziato: il responsabile del teatro: “C’è qualcuno tra il gentile pubblico che possieda un magnetofono e che abitando qua vicino ce lo possa imprestare?”

1968: la protesta da parte di alcuni cineasti alla Biennale di Venezia, l’ambiguità di essere artisti in concorso da una parte e contestatori dall’altra, accettata senza particolari patemi dall’ambiguo Pasolini: l’immagine tremendamente malinconica di quest’ultimo insieme a Zavattini, appoggiati al parapetto del vaporetto nella sera veneziana. “Questi due non devono morire mai!” – “O straziante bellezza del creato.”
1992: la morte di Falcone, l’autostrada di Capaci rimessa a nuovo a tempo di record dopo la strage, quasi per liberarsi dalle tracce di un incubo per le coscienze.

1975: l’ultimo incontro con Pasolini a Ostia con un giornalista della RAI; le parole del poeta sono quelle che fanno male: “l’omologazione culturale che il Fascismo non è riuscito a imporre in vent’anni di dittatura, la società dei consumi l’ha ottenuta in meno di cinque anni di democrazia.”

Oggi: “i treni frigorifero trasportano i broccoli a infinite distanze.”

Ultimi trent’anni: il mondo popolare, senza tempo, collocato in una dimensione parallela, perso in una sfera fantastica (“ma esistono ancora i miracoli?”); il Sud, la magia, i tarocchi, una cultura che, quando ha la forza di farlo, chiede soltanto di essere riconosciuta, non apprezzata; siamo o non siamo nella civiltà in cui tutto ciò che non passa per il piccolo schermo non esiste. cultura, passatempo, bisogni affettivi e sessuali, sapori, idee, si risciacquano in un unico detersivo ultrasbiancante.
(Tracce dallo spettacolo del Quartetto Vocale di Giovanna Marini al Teatro di Porta Romana, Milano, 1/ottobre/1996).

Cosa ne pensa di uno speciale dedicato alla musica femminile? (Il numero 1 di “Auditorium reviews” conteneva l’inserto “Avanguardia musicale femminile”, NdR)

«Penso che infastidiscono i ghetti. Vengo adesso da una cosa tutta femminile, dove erano presenti solo musiciste: “Donne in musica” un convegno presentato a Fiuggi, promosso da Patricia Adkins Chiti. Io le ho trovate molto maschili, anzi terribilmente maschili. Non c’è niente di femminile in quelle donne quando si ghettizzano, assumono una tale aggressività…».

Nel 1977 lei allestì lo spettacolo “Correvano coi carri” con undici voci femminili e, a questo proposito, lei disse che non era stato per scelta ma perché mancavano gli uomini.

«Come ho detto prima non mi piace fare il ghetto delle donne, semmai mi piace rilevare la mancanza degli uomini in questo campo. E’ vero che si è sempre donne: in classe a Parigi (presso l’Università di Saint-Denis, NdR) ho novanta allievi di cui undici uomini, tutte le altre sono donne. Mentre in Italia, nei miei seminari, l’unico posto dove ho un’affluenza notevole di uomini è il Sud. In Sardegna erano più uomini che donne, in Sicilia erano quasi più uomini. E questo è molto indicativo di una cultura. In Sicilia non si vergognano di cantare perché fa parte della cultura maschile. Ed è interessante vedere come si è perpetrata. Quando vado a Catania trovo su una novantina di persone almeno cinquanta uomini. Ma mi rendo conto che non si sono messi d’accordo, bensì che mi trovo di fronte ad un fatto culturale specifico che rispecchia ancora le loro radici profonde. Al Nord invece ci sono solo donne. Questa è evidentemente una conseguenza del consumismo. Non so in che modo possa esserlo, ma se ci riflettessi un momento troverei una spiegazione. La civiltà dei consumi alle donne non ha fatto comodo, le ha introdotte nella vita lavorativa, nella quale loro fanno sempre due lavori, perdendo sempre più identità, sempre più ossigeno. Di conseguenza si tuffano in questa iniziativa dove in qualche modo riacquistano l’animo e la persona, l’anima antropologica e la loro persona».

Visto che ha accennato all’aspetto didattico della sua attività, ce ne vuol parlare?

«Io ho scelto di fare, invece di osservare, cioè di entrare dentro. Io sono musicista, non etnomusicologa. L’etnomusicologo conosce la teoria del suono praticato dagli uomini, le situazioni, i riti. Egli, in tre parole, conosce il mondo. Mentre io no. Io non conosco i riti e le tradizioni nel mondo: solo per conoscere quello che da Roma va a Frosinone ho impiegato vent’anni. Sono una musicista che si è appassionata al suono popolare e all’organizzazione del suono popolare, perché è più vivo, perché è un rito legato alla sua fruizione. Mentre nel mondo classico la funzione è troppo astratta, troppo traslata. Questo è il motivo principale per cui preferisco il mondo popolare e il non-temperato al temperato, poiché c’è una maggiore varietà di suoni. Nel mondo classico tutto è molto più omologato, c’è una sola voce, quella con il vibrato con l’impostazione in testa. Nel mondo contadino non c’è omologazione, ognuno ha il suo modo, ognuno si firma cantando, ogni esecuzione è assolutamente unica per modi, respiri, impostazione vocale. Questo mondo però non lo osservo da lontano perché altrimenti perdo queste preziosità, che mi piace praticare».

Come trasmette poi ai suoi allievi queste peculiarità?

«Sono riuscita a capire, dopo tanti anni, tutta una serie di regole dello stile del canto di tradizione orale. Le notte sono le stesse nella cultura classica, gli accordi di tonica, dominante, quarto grado sono sempre quelli, come nel blues. Però se vengono suonati con un pianoforte può essere Haydn o Mozart, se cantati con delle voci non-temperate sono canti di tradizione orale. Dopo tanto tempo mi sono impossessata di quelle regole e di quelle strutture».

Anche attraverso le trascrizioni?

«Moltissime trascrizioni, è la cosa più importante, altrimenti uno cancella tutto. E ho insegnato questo agli allievi: individuare le regole per mezzo delle trascrizioni, vedere la periodicità delle cellule, evidenziare quanti microintervalli capitano sempre nello stesso punto, dove sono le microvarianti; insomma, lo studio analitico. Ma soprattutto moltissimo ascolto. Andiamo nei luoghi tutti insieme, faccio vedere loro come si registra, poi come si ascolta. In questo consiste il mio corso, a Parigi lo chiamano Corso di Etnomusicologia applicata, proprio perché io ho voluto spiegare che non sono una musicista che ha applicato all’etnomusicologia le proprie conoscenze».

Le metodologie cambiano da Parigi alla Scuola del Testaccio?

«No, insegno allo stesso modo».

Quindi a Parigi gli allievi hanno la possibilità di avvicinarsi alla musica popolare italiana.

«Molti di loro sono figli di emigranti italiani».

Riuscite a trovare dei campi di ricerca anche a Parigi?

«Sì, è possibile fare ricerca. Io mi ricordo nel 1964 una ricerca bellissima sull’Abruzzo che feci a Boston, perché c’erano molti emigranti. A Parigi il Friuli è assai rappresentato: si può ottenere una bellissima registrazione di canti friulani che nemmeno più in Friuli si ricordano».

Parliamo della tecnica del canto. Lei proviene da una cultura accademica classica e si avvicinata alla cultura contadina. Adesso fonde le tradizioni contadina e colta, penso al madrigale polifonico. Possiamo individuare delle aree di influenza, riferendoci al quartetto vocale?

«Le aree sono: la scrittura quartettistica e madrigalistica – e questa è l’influenza del classico – anche se possiamo dire che la mia scrittura è quartettistica; poi l’influenza del popolare deriva dal fatto che Patrizia Nasini, Francesca Breschi e Patrizia Bovi ricantano le mie composizioni nello stile del canto contadino. Non sempre, ma quando vogliamo, c’è un continuo passare dalla timbrica classica a quella popolare e viceversa. C’è una fluttuazione continua. Ad esempio nello Stabat Mater di Piero Arcangeli, pezzo popolare poi rielaborato da Piero, facciamo le prime due strofe temperate, tutte le altre invece sono non-temperate. Il mio Amour me amour di Pasolini è non-temperato. Mentre altri pezzi sono temperati. C’è una scelta di esecuzione che rende il pezzo eseguito in maniera diversa. La gente rimane così sorpresa, perché, anche se l’ascoltatore non può dire “questo è temperamento e questo no”, sente che c’è qualcosa. Infatti mi dicono: “ma quando sembra che stiate per stonare e poi invece riacchiappate l’accordo…”, questo è il momento di quei passaggi e di quelle fluttuazioni della timbrica dal temperato al non-temperato. Cambia anche il colore della voce».

Di fronte ad una platea borghese come quella di un teatro pensa che sia necessario creare delle edulcorazioni del canto contadino, specialmente quello del Sud che è molto più nasale, più aspro di quello del Nord?

«Noi non edulcoriamo, facciamo esattamente il contrario. Se non si esagerano le differenze l’edulcorazione diventa un appiattimento che omologa e tutto diventa uguale – Esattamente quello che Pasolini diceva che era successo e rimpiangeva che fosse successo».

E’ a conoscenza di esperienze parallele alla sua in Italia o in Francia?

«Non so se sono simili alla mia, ma c’è un gruppo di donne (anche dieci!) di Berney in Normandia, legate ad una donna più anziana che compie delle ricerche etnografiche, poi eseguono i canti del Berney un po’ come facciamo noi, senza però la scrittura di nuovo materiale».

Anche in questo caso sono solo donne.

«Sono donne perché al Nord sono le donne che si danno da fare. Agli uomini proprio non ho capito cosa gli sia successo».

Lei parlava di funzione del canto popolare. Il vostro quartetto che funzione ha?

«Deve avere la funzione di intervenire, di interparlare tra uno stile musicale e l’altro. C’è una frontiera invalicabile fra la musica classica accademica e la musica contadina. Non si è mai riusciti a far capire che l’una proviene dall’altra, appartengono alla stessa famiglia. Credo che forse questo quartetto vocale riesca a creare un tratto di unione tra un mondo e l’altro».

L’esperienza nella musica per il cinema e per il teatro è distaccata dal tipo di scrittura e di utilizzo della voce che abbiamo appena visto?

«Non sempre. Per il teatro vogliono proprio queste voci, perché hanno bisogno di qualcosa di molto vivo. A teatro non ci si può mettere un cantante lirico a meno che non si voglia proprio quell’effetto. Hanno invece bisogno di voci naturali. Io e Patrizia Nasini lavoriamo molto con gli attori per ottenere questo. L’unica differenza è che scrivo, come per il quartetto, ma sono altri a cantare. In secondo luogo il pezzo è al servizio di una scena, cioè di un argomento che ho scelto, ma che mi è stato dato. Nel cinema al contrario non c’è molta contaminazione. Adesso incomincio a pormi dei problemi sugli strumenti e cerco di fare un tentativo per usare anche la voce. Ma è molto difficile perché questa veste, sono molto di più una musicista che fa musica da film».

In Cronache del terzo millennio di Maselli, per cui ha scritto la colonna sonora, la musica è molto descrittiva.

«Sì. L’ho scritta per il violoncello, pianoforte e percussioni. Con Maselli non si può fare la musica che uno vuole. Lui te la fischietta in continuazione, diventa una cosa persecutoria, per cui si fa quello che vuole lui. Maselli, non lo dico in senso negativo, è un regista molto presente nel chiedere la musica. Quando vuole una musica si fa quella, è difficilissimo portarlo ad altre scelte».

Lei parla sempre con una certa autoironia quando si riferisce al periodo passato in cui si dedicava alla scrittura di lunghissime ballate che ora descrive quasi come sei deliri…

«Dei momenti di megalomania…».

E’ un periodo che però non ripudia.

«Affatto. Anzi, devo dire che ogni tanto guardo con ammirazione quello che scrivevo, perché adesso non lo scriverei più. Mi sembra una fatica improba, sia da scrivere, che da cantare. Era proprio la gioventù che mi dava quella forza. Mi ricordo che Viva Voltaire e Montesquieu era una ballata difficilissima sia per il testo, sia per l’aspetto esecutivo».

Spesso viene posta in risalto da parte sua la preoccupazione per la comprensione dei testi, soprattutto nei madrigali in cui questa risulta più problematica.

«Se si compone un madrigale, bisogna essere rassegnati a mettere il testo tutto intero solo nella parte finale. Prima bisogna spezzarlo, dal momento che le entrate sono fugate e avviene che, mentre uno dice una parola, allo stesso tempo copre quella dell’altra voce. Solo alla fine, come faceva Monteverdi, viene fuori tutto insieme. Quando voglio che il testo si capisca veramente, lo enuncio prima del brano come con Calpestavano i mosaici, che nella prima parte è un madrigale, poi diventa una melopea, quasi monodica, cioè è polifonica ma ritmicamente le sillabe coincidono, per cui viene facilmente inteso il senso delle parole».

Penso che poi in madrigali come I trentacinque giorni della Fiat o Tien an men l’importanza delle parole diventa primaria.

«Però lì c’è una voce solista che intona le parole, mentre le altre eseguono degli accordi sotto. Poi le parole vengono parafrasate, anche se qualcosa si riesce a capire».

Parliamo della performance del quartetto dal vivo. Molto spesso vi sostenente anche con le braccia e vi fate dei segni. Quale funzione anno queste mosse?

«C’è una gestualità necessaria: un po’ per dirigerci, un po’ per alternare il temperato con il non-temperato, cosa che prima non facevamo. Tale alternanza fa sì che si corrano dei rischi che l’ascoltatore non avverte, ma noi sì: cioè che si possa precipitare nel caos armonico, in cui non si capisce più a che punto siamo. I segni servono per dire “cresciamo o caliamo”. Quando una di noi ha poca voce allora si preferisce stare su perché è più riposante, oppure giù, a seconda. Ci segnaliamo inoltre i passaggi enarmonici, oppure quando Patrizia Nasini usa la voce popolare, allarga l’estensione, poi però deve chiudere, perché non può coprire le altre e ci segnala quel momento. Quindi sono tutti gesti assolutamente funzionali. Ci siamo accorte che la presa che ci facciamo, l’abbraccio, serve moltissimo per una sorta di passaggio di energia. Inoltre la ritmica è molto difficile, il toccarci serve anche a coordinarla».

E l’improvvisazione rimane estranea alle vostre performance?

«Non c’è improvvisazione nello spettacolo, perché io prevedo tutto fino allo spasimo, anche i respiri. L’aspetto improvvisativo è dato dal fatto che siamo senza rete, che invece esiste quando non si ha uno strumento sotto. Pur non essendoci improvvisazione c’è un’emergenza continua. Se si parte da un bel MI minore, poi ci si ritrova RE minore, bisogna in qualche modo riuscire a risalire, per cui si fanno mille trucchi di tipo assolutamente popolare, perché anche nei canti di tradizione orale c’è questo problema. Infatti si fanno sempre le risalite di qualche quarto di tono per recuperare sulle partenza. Noi ci serviamo costantemente in scena di questi trucchi e , come conseguenza, uno spettacolo non è mai uguale all’altro, ma ciò accade non perché si usi delle tecniche improvvisative in senso stretto».

Se ben ricordo, l’unico esperimento che lei ha fatto nel campo dell’improvvisazione è stato ne La grande madre impazzita. E’ stato anche l’unico momento di avvicinamento al jazz o ce ne sono stati altri?

«Ricordo quel lavoro con il trio SIC (Giancarlo Schiaffini, Michele Iannaccone e Eugenio Colombo, NdR). E’ Stato grazie a loro, alla scuola del Testaccio, a Bruno Tommaso, a tutti i miei amici jazzisti e ai miei figli che mi sono avvicinata al jazz. Però non sono capace. Mi è arrivato addosso troppo tardi, bisogna essere molto più giovani per imparare quelle cose, lo conosco ma non lo posso praticare. Nel Falcone c’è una frase assolutamente jazzistica (la canta, NdR), però su di essa non so costruire un’armonia jazzistica».

da: “Auditorium reviews”, n.1, 1997 © altremusiche.it / Michele Coralli

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