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Tra i progetti del compositore milanese Maurizio Marsico spicca quello della scrittura di un brano di musica da camera, che stenta ad essere messo a punto in attesa della scelta di quale camera di debba trattare. Acustica ed elettronica, aurea colta e vernacolo, intellettualismo e bassa manovalanza: è questo il profilo del compositore del futuro? Due chiacchere con Maurizio non ci aiutano a capirne di più di prima. Se non altro ci abbiamo provato…
Il tuo ultimo progetto “Composer’s Cut” è stato pensato come una raccolta di brani originali tuoi e altre composizioni a tua scelta di alcuni autori italiani e stranieri: una sorta di compilation eterodossa che pesca da modernismo, minimalismo, scena impro, avanguardia americana e quant’altro. A quali di questi pezzi ti senti particolarmente legato e quali invece quelli che sono stati esclusi?
«Sono legato affettivamente ai brani di Rhys Chatham (The Kings of Edom, Whose Crowns Are Not), Daniele Cavallanti (New York Dresser) e Tommaso Leddi (Veli Alba), ma tutti quanti in realtà sono fatti da amici e colleghi, qui in veste di compositori o interpreti. Abbiamo escluso alcuni brani di John Cale, Renato Rivolta e Patrizio Fariselli, che inizialmente erano stati presi in considerazione, non per la qualità ineccepibile dei brani, ma per problemi di altra natura, legati in particolare alle durate e alle edizioni».
Di fronte alla possibilità di usare Internet per autoprodursi delle raccolte su CD (anche con brani di cosiddetta avanguardia) non pensi che la concorrenza sia un po’ “sleale”?
«Infatti sto pensando di fare dischi con muschi e licheni che germinano sopra in modo che suonino sempre diversi e unici…».
Chatham, Cavallanti e Leddi sono i tuoi preferiti. Tanto per capire… Sei cresciuto con Riley, Coltrane ed Henry Cow?
«No, con La MonteYoung, Ornette Coleman ed Emerson Lake & Palmer».
Compositions, Free Jazz e Pictures at an Exhibition?
«The Well Tuned Piano, Somethin Else!!! e Brain Salad Surgery».
In passato ti sei esibito con Pazienza, Liberatore e Tamburini della mitica rivista “Frigidare”. Di che tipo di esibizioni si trattava?
«Facevo il dj con un sound-system completo di piatti, sintetizzatore analogico Korg ed effetti vocali. Era il 1981 e io improvvisavo anche un po’ di rap vocals. Abbiamo fatto numerosi danni agli altri e a noi stessi…».
Oggi qual’è il tuo metodo di lavoro?
«Si compone con carta e matita o su un pianoforte quasi sempre out of tune, con (a volte) la mia Gretolina che ronfa sotto (trattasi di cane, NdR)».
Mi piacerebbe sapere il tuo parere sulla prassi ormai diffusa tra moltissimi musicisti di lavorare attraverso Internet. Molti lavori nati da contesti virtuali perdono una patina di polvere e di sudore che invece è sempre piacevole cogliere all’interno di esecuzioni live.
«Io personalmente amo il sangue, il sudore e la polvere, i cavi difettosi, gli errori e i lapsus. Mi interessano i programmi random e la possibilità di interagire virtualmente mantenendo un ampio margine di immonda umanità».
Casualità e improvvisazione hanno determinato gran parte delle scelte compositive a partire dagli anni ’60 in poi. Non credi che ci sia il pericolo di scatenare troppa indeterminazione?
«No, se le dinamiche improvvisative sono strutturate entro percorsi complessi, se le capacità esecutive dispongono di un ampio raggio timbrico, se il rapporto tra eventi sonori e silenzio è equilibrato e se le voci diverse sono ben amalgamate. Mezzo piano e mezzo forte, pianissimi con cinque p e fortissimi con dieci f».
E se prima o poi ritorna il momento costruttivo che rimette al centro il pensiero musicale complesso, cosa succede?
«Mi interessano le strutture complesse e i pensieri musicali semplici. I miei pezzi sono parzialmente scritti e parzialmente improvvisati. Uso un tipo di notazione che consente una grande libertà interpretativa, un po’ come la musica antica. Sono un compositore Ba-rock-co-cò».
aprile 2004 © altremusiche.it / Michele Coralli
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