Misha Mengelberg: Pianista, teatrante e improvvisatore [intervista]

Foto: Ton Mijs
Michele Coralli

Entra in scena come un intruso, si aggira nell’area in cui viene eseguita l’opera mobile di Tristan Honsinger, Galleria San Francesco, messa in scena durante l’ultima edizione di Angelica, uno dei rari festival italiani dedicati alle musiche eterodosse, tra sperimentazioni e avanguardie. Poi ha inizio la sua incredibile esibizione, candidamente surreale. Stiamo parlando di Misha Mengelberg, pianista ucraino/olandese, figura storica della scena improvvisativa che dagli anni ’60 si ritaglia uno spazio ai confini tra free jazz e musica contemporanea.

Ieri per me è stata una sorpresa vederti eseguire una perfomance come quella all’interno dell’opera di Honsinger. La cosa più sorprendente è stata sentirti cantare in quel modo quasi infantile, a tratti stonato. La mia domanda un po’ provocatoria è: dov’è che ha imparato a cantare?

«Non ho mai imparato a cantare, ma qualche volta lo faccio. In questo caso ho seguito l’idea di Massimo Simonini di mettere in scena una perfomance cantata. Non diversifico la mia attività in modo così rigido, se ho voglia di cantare, allora canto. Nel contesto dell’opera mi sono detto che il canto sarebbe stata una parte importante della perfomance».

Quando hai pensato a quest’opera, ha deciso di fare qualcosa di collegato all’atmosfera di ciò che stava avvenendo o non ci hai badato (visto che la sua esibizione era collocata tra due scene specifiche)?

«Sì, in qualche modo la mia esibizione era collocata in quel contesto. Penso che non sia stata una cattiva idea da realizzare. Tristan mi ha parlato dell’opera e anche dello spirito della manifestazione. Così abbiamo trovato il modo di inserire la mia esibizione. Penso che lui abbia un certo talento nella dimensione teatrale. Qualunque cosa che faccia è chiara la sua forma e il proposito della cosa, anche quando non c’è alcun proposito».

Anche il tuo modo di esibirti ha una forte espressività teatrale.

«Ho fatto parecchio teatro negli anni Settanta e Ottanta. Le attività della Istant Composers Pool Orchestra erano fondamentalmente connesse alla perfomance teatrale. Una settimana all’anno spendevamo un bel po’ di soldi in qualche allestamento teatrale e abbiamo continuato fino ai primi anni ’90. Poi le sovvenzioni che ricevevamo cessarono. All’epoca mi davano per quelle manifestazioni all’incirca 50.000 fiorini a fondo perduto. Ora non ci sono più artisti in Olanda che possano mettere in piedi certi tipi di progetti. Da quel momento in poi ci siamo messi a fare concerti e non più teatro. E’ un peccato perché una delle cose importanti nell’esistenza dell’ICP era appunto la sua dimensione teatrale».

Il tuo rapporto con il teatro quando nasce?

«Ho sempre avuto molte relazioni con il mondo del teatro, ho anche insegnato in una scuola teatrale per dieci anni. Ho scritto un sacco di musica per compagnie teatrali professioniste. Ho sempre avuto molte ambizioni nell’ambito del teatro, forse finalizzate a grandi cose. Ma molte delle situazioni che ho usato in questi contesti teatrali sono salite sul palco, nel corso degli anni, anche nei concerti».

Sei stato parte anche del movimento Fluxus, area in cui molte arti sono entrate in sinergia.

«Sì, è vero. Anche il Fluxus aveva in sé molti momenti teatrali. Per me si è trattato di un breve periodo. Penso che il Fluxus finì all’incirca dopo la metà degli anni ’60, già nel ’67 era completamente esaurito. Fino a quel momento, a partire dal ’64, ho tenuto ottimi contatti con molti artisti Fluxus come Tomas Schmit e alcuni artisti americani».

Yoko Ono forse?

«No, non lei. Sapevo che in qualche modo faceva parte di quel movimento ma non so in che modo e nemmeno che cosa facesse. Non penso che la sua influenza sui Beatles sia stata in alcun modo felice. Il gruppo non esisteva già più, ma forse tutto è andato come doveva andare. Due o tre Beatles non erano certamente coinvolti nel Fluxus come “gioco della mente”. Forse il marito di Yoko Ono, John Lennon lo era in qualche modo».

Guardando indietro al tuo background, va notato che hai degli studi classici alle spalle.

«Ho studiato Teoria e Composizione al Conservatorio. Avrei dovuto spendere giorni interi ad analizzare migliaia di composizioni classiche come le sinfonie di Beethoven, ma non lo feci molto. Quello a cui ero indirizzato in quel momento, cosa che ancora adesso è molto importante per me, era analizzare Thelonious Monk. Le lezioni di analisi le ho impostate non su vecchi lavori del diciannovesimo secolo, ma su quello che facevano Albert Ayler o Monk».

Questo avveniva attraverso le trascrizioni?

«Sì, ho scritto parti che poi ho analizzato».

E cosa ha scoperto da quelle trascrizioni?

«Ho scoperto che Monk era un armonista, cioè un compositore che utilizzava le funzioni armoniche in modo da creare una sorta di processo che, attraverso tali funzioni, portava le armonie a reggersi da sole senza che ci fosse la necessità di ulteriori sviluppi. In tutta la musica di Monk non c’è molto sviluppo, bensì una sorta di status quo, per quanto riguarda l’armonia».

Uno degli luoghi comuni che riguardano Monk è che egli fosse in grado di fare delle scoperte attraverso i suoi errori.

«Non penso che gli errori riguardassero lui, quelli sono la mia specialità. Monk creava sculture, statue fatte di elementi armonici. Penso che sia stato un grande talento, l’ultimo di quelli che hanno esplorato possibilità armoniche ancora ignote. Naturlamente ho visto strutture che si sono evolute in termini di funzioni armoniche anche nella musica pop, ma in molti casi le conoscenze sono state semplicemente dimenticate. Sembra quasi che non fosse necessario inventare certe cose negli anni ’60 e ’70. Allo stesso tempo sembra anche che tutto sia stato già inventato. Il secolo scorso ha esaurito le ultime possibilità di ricerca armonica».

Per te, quindi, oggi non si può più parlare di musica pensata in senso armonico?

«La musica armonica è sorpassata e per me non è più sottoponibile a ulteriori esplorazioni. Possiamo dire semplicemente che è morta e che niente di nuovo esce in questo ambito. Nel caso di Monk invece c’era ancora spazio per l’invenzione, anche perché lui non era molto interessato alle risoluzioni, a come procedere nello sviluppo delle funzione armoniche. Credo che questa possa essere vista come un’espressione tipica, una nuova formalizzazione della musica. Egli ha pensato ad una nuova forma delle atmosfere armoniche. Molte degli accordi che suona non hanno risoluzioni: parlando in termini di armonia funzionale generalmente si inizia con un accordo di tonica e si finisce con un accordo di tonica. Naturalmente Monk non era interessato a questo. Si può dire che c’era una sola tonica che rispettava e si trattava dell’accordo di Re bemolle, che è le meta a cui è porta molta della sua musica. Ad esempio Crepuscule With Nellie, uno dei suoi ultimi pezzi, ha una coda che vuole dirigersi in un’atmosfera di Re bemolle. Ma ci sono molti pezzi che portano da quelle parti: Well You Needn’t potresti pensare che sia interamente in Fa, ma poi arriva il bridge (il ponte, Ndr), che saltella fino al Re bemolle, che ha anche in questo caso un significato molto prominente. Naturalmente tra Fa e Re bemolle c’è una relazione di terza (i due intervalli distano tra loro una terza maggiore, Ndr), ma Monk riesce a dare a questo movimento una tale enfasi da farla sembrare la reale direzione del brano. Non ho studiato solamente il suo modo di suonare in termini teorici, ma ho avuto anche l’urgenza di ricapitolare il suo repertorio nel modo in cui lui lo ha suonato. In qualche modo sono stato un “monklone”. Ho capito che questo era importante per me, perché volevo provare che capivo e che potevo riprodurre la musica di Monk. L’essere per certi versi un pappagallo mi ha consentito di avere delle soddisfazioni nel mio lavoro teorico».

Di che tipo di armonia si avvale allora la tua musica?

«Ho scritto cose che molti ascoltatori hanno messo in relazione con Thelonious Monk e penso che questo non potesse essere evitato. In effetti devo riconoscere che la sua musica ha influenzato tutta la mia attività musicale, anche le composizioni non strettamente jazz. Anche se, per quanto mi riguarda, la tendenza a differenziare la mia musica di stampo più improvvisativo e i miei lavori conservatoriali non esiste più. Sono sempre maggiormente interessato all’improvvisazione, perché non si ha il tempo di riconsiderare niente. Una cosa bisogna farla bene la prima volta. E’ una questione di disciplina: bisogna riuscire ad elaborare cose che tu hai concepito e questa situazione riguarda solamente te stesso. Improvvisare è un modo di ricapitolare le capacità della tua mente e le tue possibilità in quanto essere pensante».

Sul lato più accademico hai anche un passato a Darmstadt. Ce ne vuoi parlare?

«Sono stato a Darmstadt tre volte, sia come uditore e sia come una sorta di insegnante. Ho iniziato nel ’58, poi ritornai nel ’61 e poi molto più tardi nei primi anni Novanta. La prima volta incontrai John Cage, che era lì come insegnante. Ero interessato al suo lavoro, ma ciò nonostante non seguivo il suo forte impeto per la filosofia orientale e le sue applicazioni musicali, nonostante nutrissi anch’io un certo interesse per il taoismo cinese. Pensavo che il modo migliore per entrare in contatto con quelle filosofie era di fare le cose che volevo fare in modo che compissero il loro corso naturale. Nutrivo una certa simpatia per Cage, ma non quella grande ammirazione che molti giovani compositori nutrivano allora per lui. Preferivo allora Stravinskij e ho apprezzato molto la seconda Scuola di Vienna. Ho sempre avuto una profonda simpatia per Schönberg e Webern e naturalmente a Berg, che ha composto brani eccellenti. Poi ho ammirato compositori di quella generazione che continuava nel solco della tradizione di Schönberg, come Stockhausen e Boulez, e molti italiani».

Abbiamo parlato molto di armonia, che è un concetto molto accademico. Quali altri parametri reputi importanti per la tua musica.

«Il contrappunto. Per compositori come Mozart era quasi un gioco, per me è il frutto di una mentalità musicale rigorosa, anche se nel contrappunto ci sono forti elementi di gioco. Insegno ancora contrappunto al Conservatorio di Amsterdam ed è una delle poche cose che ho sempre considerate utili. A suonare il piano puoi imparare da solo, così come si può imparare l’armonia in due anni con un buon insegnante. Ma il contrappunto è qualcosa che appartiene fortemente alla tradizione della musica europea: il contrappunto di Palestrina viene insegnato in Conservatorio».

Anche l’armonia occorre studiarla.

«Sì, ma in un tempo relativamente più breve. Il contrappunto è un training che crea una metalità musicale, anche oggi. Utile anche per i compositori delle nuove generazioni. Occorre imparare a essere pazienti».

Come insegnante come divide la sua attività tra improvvisazione e composizione?

«In Conservatorio dedico una mattinata al contrappunto, all’armonia e all’analisi, un pomeriggio all’improvvisazione, che avviene senza nessuna indicazione sistematica. Non suoniamo pezzi di qualcuno. Siamo un gruppo di sei o sette persone che suonano contemporaneamente e creano rumori. Io cammino in mezzo al loro per cercare di ascoltare tutti e la maggior parte delle volte non dico niente. Cerco di parlare personalmente con ciascuno, comunicando le mie impressioni su come stanno sviluppando il loro suono. Ci sono due pianisti, uno tedesco molto bravo, un altro israeliano, c’è un bassista olandese…».

Sono tutti allievi del Conservatorio?

«No vengono anche da fuori. Devono pagare il Conservatorio per seguire i miei seminari».

Attualmente collabora ancora con il Conservatorio di Amsterdam?

«Ho organizzato in Conservatorio corsi analoghi a questo per vent’anni. Ora sono semplicemente un insegnante ospite, poiché, avendo superato i sessantacinque anni, sono in pensione. Ma alcuni riescono ancora ad apprezzare le mie idee sui corsi che tengo. L’ambiente accademico ad Amsterdam non è così ottimale. Mi tollerano, cosa che ben diversa dal dire che mi vogliono. Ma i dintorni di Amsterdam sono il mondo intero. E c’è gente che ai miei corsi arriva dal Giappone, dalla Russia, Cina, dal Nord e dal Sud America, e dall’Europa».

Lei si sente ancora un compositore in senso tradizionale?

«Sono stato compositore fino al ’94 e mi sento ancora compositore, anche se non compongo più. Ho smesso di farlo quando ho scoperto che la composizione si stava troppo intromettendo nell’improvvisazione e che l’improvvisazione si stava intromettendo nella composizione. Sentivo che dovevo fare un scelta. In quel momento avevo un certo numero di commissioni di composizioni scritte per gruppi o orchestra. Usai alcuni miei nastri di musica improvvisata. C’erano frammenti che potevano andare molto bene ad esempio per il quartetto d’archi che stavo scrivendo. Ma mi accorsi che quello che stavo facendo era rubare la mia stessa musica. Così la feci finita. La scelta è stata difficile perché quando decidi di diventare un improvvisatore tutti i benefici dell’essere un compositore cessano. In quegli anni avevo uno stipendio di 40.000 fiorini come compositore. Quando hanno visto che non componevo più non mi hanno più pagato. Ora ho una specie di sovvenzione dallo Stato olandese, non per la composizione, ma per la mia attività di improvvisatore. La ragione di questo, visto che le sovvenzioni le danno solamente ai compositori, è che mia attività di improvvisatore sembra essere correlata alla mia attività compositiva del passato. Secondo loro, uso i metodi della tradizione occidentale europea all’interno delle processo improvvisativo. Cosa che, più o meno, è corretta. Comunque l’opportunità che ho avuto non l’ha mai potuta avere quasi nessun altro. In passato nessun musicista ha avuto la possibilità di scegliere tra l’improvvisazione e la composizione: Mozart per quanto ne sappiamo, e le cronache ce lo dicono, era un grande improvvisatore, Beethoven e Bach allo stesso modo erano eccellenti improvvisatori. Uno per cui fu difficile poter scegliere era Chopin, che fu più grande come improvvisatore che come compositore. Anche da molti pezzi, che si possono analizzare oggi, si capisce che ci sono delle momenti di variazioni che sono frutto della trascrizione di situazioni improvvisate».

Poi, nel Novecento, l’improvvisazione ha subito un forte impulso, proprio per merito delle tecniche di registrazione e della nascita del disco.

«Sì, certamente. Quello è stato il maggior stimolo per l’improvvisazione. Le tecniche di registrazione sono diventate così prevalenti da determinare l’evidenza che il miglior modo di scrivere un pezzo è quello di registrarlo. Ma rimane comunque il problema inspiegabile per cui un compositore viene pagato per comporre, e un improvvisatore no».

Però i diritti d’autore vengono riconosciuti anche agli improvvisatori.

«Sì, vengono pagati sui dischi. Ma la cosa importante per me è che posso sopravvivere attraverso la sovvenzione dello Stato, che ha riconosciuto l’improvvisazione come forma di composizione. Penso che questo sia un processo naturale che arriverà anche in altri paesi, forse tra vent’anni sarà possibile anche in Italia. Come parte dell’Europa i cambiamenti sono molto più rapidi ora».

È ancora in contatto con musicisti come Han Bennink?

«Sì, anche lui riceve soldi dallo Stato come improvvisatore. Ma anche lui è uno dei pochi per il momento».

da: “Strumenti Musicali”, n.255, luglio/agosto 2002 © altremusiche.it / Michele Coralli

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