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Incontro Marco Stroppa a Bari in occasione del 2° Festival di musica contemporanea “Urticanti”. Mi ritornano più volte alla mente alcune sue foto molto comuni che lo ritraggono seduto davanti a un monitor; eppure faccio fatica a ritrovare l’immagine, così diffusa, di Stroppa compositore dedito al lavoro esclusivo con il computer, nell’umanità discreta ed entusiasta del signore che si è appena offerto di rinunciare alla pausa pranzo per ragionare di musica e ricerca. Faccio fatica a ritrovarla, peraltro, nel suo catalogo, che rivela una produzione destinata in buona parte agli strumenti acustici.
Lo rendo partecipe della mia riflessione e gli chiedo quale ruolo abbia avuto realmente l’informatica nella sua attività compositiva.
«L’immagine di cui parli, in effetti, non corrisponde alla realtà; penso dipenda dal fatto che si tende a notare le differenze piuttosto che le cose normali: se parli di una persona dal viso molto bello, ma con un neo sul naso, dici: “Ah, ti ricordi di quella persona con quel neo sul naso?”. Per me è accaduto lo stesso: ho avuto la fortuna logistica di studiare composizione e musica elettronica con Dionisi e Corghi a Milano, e Vidolin a Venezia, nello stesso tempo. L’apprendistato si è influenzato reciprocamente e sono diventato “bilingue” tanto da non saper dire dove finisce l’elettronica e dove comincia la musica strumentale. La mia esperienza elettronica, tuttavia, è stata “notata” di più.
In questo senso, ho intrapreso la strada per la quale mi sembrava di avere del talento, perché ho capito di avere più doti naturali per lavorare col computer che per suonare uno strumento o dirigere un’orchestra. Però ritengo che la mia scelta sia stata anche una forma di adattamento all’epoca: oggi non si può pensare di vivere nel passato, bisogna “apprendere” nel senso letterale del termine, cioè imparare ad usare in maniera critica, e non passiva, gli strumenti che il tempo ci dà, così come non si può pensare di vestirsi con la parrucca o di parlare l’italiano dell’ottocento! Molti musicisti lo fanno, ed è una scelta rispettabilissima, ma mi sembra che passino attraverso qualcosa senza rendersene conto, e quando non ci si rende conto si è pilotati. Per quanto mi riguarda, ho avvertito la necessità di un’analisi critica del mezzo informatico proprio per evitare forme di controllo da parte dei programmatori: volevo utilizzarlo con fini espressivi e non con dei preset. Ciò non toglie che, se guardiamo al repertorio, ho molti più pezzi senza, che con l’elettronica».
Quale contributo ha dato l’elettronica, tecnicamente, al tuo lavoro con gli strumenti tradizionali?
«Tra i due ambiti si è creato un rapporto di osmosi continua, che si sostanzia almeno in due tendenze: la prima (già segnalata da Stockhausen negli anni ’50, ma all’epoca irrealizzabile per carenza tecnologica) mi induce a spingere il pensiero compositivo non solo alla combinazione di suoni strumentali, ma anche alla costituzione del suono stesso. Per far questo, mi interrogo sul senso della comprensione del suono, oltre che della sua percezione, perché la macchina non dà limiti o, meglio, i limiti della macchina non sono limiti strumentali: richiedono che il compositore ritrovi la propria umanità e rifletta sul fatto che si scrive per gli esseri umani e non per le macchine.
L’altra tendenza che colgo nel mio lavoro mi viene dall’informatica come forma mentis, piuttosto che come disciplina tecnologica. L’informatica, infatti, ha un approccio molto vicino a quello del musicista, perché si pone l’obiettivo di risolvere problemi per trovare un risultato: in filosofia si chiama “epistemologia imperativa”. Allo stesso modo, il compositore ha un mondo immaginario che cerca di tradurre mediante modelli, consci o inconsci, noti o inediti; alla fine di questa traduzione, che è un atto molto intellettuale, scrive una partitura, nella quale riporta la trascrizione del concetto. Per questo penso che il compositore sia un mini-informatico in nuce: non scrive per la tecnologia, ma il processo mentale è lo stesso; l’esserne consapevole mi ha permesso di immaginare delle forme musicali che, diversamente, non sarebbero state accessibili. Direi, quindi, che nella prima tendenza si compie un viaggio del suono e, attraverso il suono, della percezione e della cognizione; nella seconda, un viaggio della forma».
Ripercorrendo il catalogo delle tue opere, in particolare dagli anni ’90 in poi, si colgono, nei titoli, chiari riferimenti al mondo fenomenico; oppure, in presenza di un titolo astratto come Metabolai si scopre, sfogliando le note che precedono la partitura, il legame con un’esperienza sensibile: la tua prima visita alla Cattedrale di Chartres. Da cosa scaturisce il tuo immaginario compositivo?
«Ogni compositore cerca una scintilla che gli permetta di accendersi e di giungere là dove forse non sarebbe arrivato senza questa energia vitale. Anche grazie alla mia esperienza di insegnante, mi rendo conto di come ognuno abbia una miccia diversa per provocare la scintilla. In questa dimensione pre-musicale, c’è chi studia delle tecniche, chi compie delle analisi, altri leggono o passeggiano. Per quanto mi riguarda, penso di disporre di una conoscenza teorica della musica sufficientemente solida e di possedere il “mestiere tecnico” del compositore – mestiere che naturalmente continuo ad elaborare e approfondire in un percorso non finito – tanto da poter cercare la scintilla altrove. All’inizio i miei titoli erano un po’ più tecnici perché, forse, ero alla ricerca di un mio linguaggio: Metabolai, Spirali o Traiettorie, in effetti, sono delle forme metaforiche ma non dei titoli poetici. Più tardi, invece, mi è sembrato importante volgermi a una realtà umana più profonda, che passasse per l’impegno nel sociale e l’impegno poetico. La risonanza ricercata attraverso i miei titoli poetici e il loro carattere evocativo rivelano, è vero, un atteggiamento più umanistico: in un mondo dell’iper-specializzazione tecnica, mi sembra necessario riuscire anche a valutare il senso della tecnica; e questa ricerca di senso non può essere fatta restando all’interno del proprio mondo».
Accennavi all’impegno sociale: in che misura ritieni l’arte capace di farsi portatrice di messaggi ed affrontare temi di valenza etica, in questo momento storico?
«La musica è un’arte eminentemente sociale, nella quale il compositore non può prescindere dal rapporto con l’istituzione, che organizza il suo lavoro e lo porta al pubblico. Inoltre, come l’arte in genere, non si presta a logiche capitalistiche: la musica è un valore e non un oggetto di consumo. Già in questo coglierei una forma di “impegno”, al quale si affianca, poi, l’impegno del compositore in quanto persona e cittadino che, mi sembra, debba avere una posizione chiara. Certo, sono trascorsi i tempi in cui la musica si faceva portatrice di un messaggio rendendolo più importante del percorso musicale. Credo, quindi, che oggi il messaggio più sovversivo sia quello, innanzitutto, di far bene il proprio mestiere: lavorare, cioè, con una cura e una costruzione dei rapporti umani che siano in dissonanza con i valori commerciali dilaganti.
Fermo restando che un compositore progressista non necessariamente scrive musica progressista, come non è detto che un conservatore scriva musica conservatrice (e la storia lo insegna), ultimamente la realtà mi appare abbastanza brutale da spingermi ad usare testi e titoli un po’ più “caldi”. C’è un mio quintetto per fiati, per esempio, che si chiama Opus nainileven: non si riferisce all’11 settembre del 2001, ma all’11 settembre del ’73, giorno in cui Allende fu destituito con il colpo di stato in Cile. Ho scoperto questa coincidenza di date leggendo un articolo di un giornalista che metteva in relazione le due cose e ho trovato molto interessante il fatto che il Paese attaccante fosse stato attaccato, con inversione dei ruoli. Ne è nato un progetto musicale in cui i ruoli degli strumenti si intersecano e si invertono, con un’indagine sul rapporto fra aggressore e aggredito tradotto in dimensione musicale e spaziale; dieci anni fa non l’avrei fatto».
Cosa pensi della ricezione della musica contemporanea?
«Un’opera d’arte non è un oggetto da comprare al supermercato e non mi dispiace che richieda un certo impegno da parte di chi ne vuole fruire! Certo, è salutare che l’incontro con l’arte implichi un avvicinamento da entrambi i lati e che la strada per raggiungerlo non sia un sentiero di montagna, dal quale non puoi uscire altrimenti caschi nel dirupo, ma un percorso molto ramificato. Quindi ritengo che si debba cercare di creare opere con una struttura ramificata non soltanto nella proposta formale ma anche nel rapporto che cercano di instaurare con il pubblico, affinché l’espressività di cui sono portatrici non diventi l’unica chiave per accedere all’opera. Detesto ogni forma di imposizione e non vorrei che un’opera imponesse una possibilità di ascolto univoco.
Nel trio Hommage a Kurtág, per esempio, non c’è soltanto l’omaggio a un compositore che conosco personalmente e a un Paese che adoro, ma anche il rapporto con un pezzo di Kurtág che è un omaggio a un brano di Schumann, a sua volta nato con un riferimento a Mozart. Questa cascata di omaggi non si pone, però, come citazione o come elemento aneddotico; piuttosto, lascia intravedere, dietro un’opera, l’ombra o l’alone di un’altra opera. Se poi una persona non vuole scavare e non vuole cogliere questa reminiscenza, ma preferisce rimanere ad ascoltare in superficie a me va benissimo: ognuno prende dell’opera ciò che ritiene. Un “prendere” che sarà sempre diverso: insieme alle persone e ai tempi, cambieranno anche i rapporti tra l’opera e il fruitore. Ed io non posso prevedere che cosa sarà il pubblico tra duecento anni, ma posso provare a creare un’opera le cui ramificazioni fra duecento anni non siano tutte appassite».
È molto bello, a proposito dell’Hommage a Kurtág, questo svelare la presenza di un fil rouge con altri compositori, in una sorta di “corrispondenza d’amorosi sensi” musicale ricorrente, per giunta, anche in Kurtág. Qual è il tuo rapporto con i compositori che hai incontrato, e quale il rapporto con la tradizione, andando un po’ indietro?
«L’incontro con molte delle figure importanti del secolo scorso, ma anche di questo, mi ha permesso di apprezzarne le differenti personalità e chiarire, in certi casi, anche alcuni aspetti musicali, talvolta con una caratterizzazione benefica del loro lavoro, talaltra meno! Tuttavia, è il lavoro in sé che ha destato maggiormente il mio interesse.
Con l’Ungheria, poi, è nato un rapporto molto forte: sin da quando ero piccolo, alla cosiddetta “Seconda Scuola di Vienna” preferivo Bartók; trovavo che, intuitivamente, egli raggruppasse il lavoro del musicologo, del ricercatore, dell’interprete e del compositore, con processi formali che, pur non essendo così radicali come quelli della Scuola di Vienna, se considerati dal punto di vista della relazione tra cognizione e percezione, si rivelano nettamente più interessanti. L’aver conosciuto, poi, il suo Paese, praticando in dose omeopatica la sua lingua, mi ha consentito di comprendere meglio il rapporto fra ritmo e melodia: pensare, nelle lingue ungaro-finniche, rispetto alle indoeuropee, è molto diverso.
Quanto al rapporto col passato, sono un grande mélomane, come si dice in francese: ascolto molta musica, che non comincia da Mozart né finisce con Brahms, ma si allarga al gregoriano e comprende forme musicali non europee; ho studiato anche etnomusicologia, infatti, ricavandone idee che poi ho tradotto nel mio linguaggio, non in forma di citazione ma, piuttosto, come sostrato invisibile».
Hai eletto la Francia come patria d’adozione già negli anni ’80: cosa ti ha persuaso a compiere, giovanissimo, questa scelta?
«Credo nel valore della ricerca come attività umana e, per quanto mi riguarda, artistica. Ricerca che, per me, significa provare a trovare qualcosa, piuttosto che accettare degli stereotipi o girovagare a vuoto: se uno cerca, è per trovare delle cose. Le generazioni di compositori più giovani entrano spesso in una logica di produzione: creare una serie di pezzi molto numerosa, senza rimettere in questione il progetto. Per me, invece, la ricerca è un valore e mi rendo conto di sentirmi chiamato là dove questo tipo di percorso è possibile ed, eventualmente, valorizzato: la Francia è il luogo che mi ha consentito di cercare, non solo dal punto di visto informatico ma, prima ancora, musicale».
febbraio 2007 © altremusiche.it
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