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In occasione del concerto dei Whatever a Frossasco (To), un piccolo comune nei pressi di Pinerolo, dove ogni estate si svolge un piccolo festival folk-revival, abbiamo incontrato Danny Thompson. Ne è seguita questa breve intervista.
Alla conclusione di questa breve tournée italiana ti senti soddisfatto?
«È il primo tour ufficiale per il gruppo: abbiamo dato sette concerti in piccole ma caratteristiche cittadine e l’accoglienza è stata calorosa dappertutto».
Probabilmente sei più conosciuto come musicista folk-revival che come musicista jazz, la gente viene ai tuoi concerti perché ti ricorda ancora come bassista dei Pentangle.
«La mia collaborazione con i Pentangle risale a molto tempo fa, ormai sono più di vent’anni. È bello essere ricordato per il tuo passato: quello che facevamo allora era sicuramente innovativo, anche se non ne eravamo consci, ci piaceva semplicemente suonare insieme. La stessa avviene oggi con il mio nuovo gruppo. Capisco che molti fan dei Pentangle o di John Martyn mi ricordino per quel periodo, ma ci sono altre persone che si ricordano di me perché ho suonato con Ronnie Scott nei jazz club di Londra o con la Blues Incorporated Orchestra di Alexis Corner o ancora per certe mie collaborazioni in ambito pop. Molta gente non mi conosceva prima di avermi sentito suonare con David Sylvian, forse qualcuno è venuto a vedermi perché ho suonato con Claudio Baglioni (ride, ndr). Parlare del passato è pericoloso per me: spesso mi hanno chiesto se avrei suonato ancora con la formazione originale dei Pentangle. Sarebbe una bella idea se si facesse per amore della musica e non del denaro. D’altra parte io sto ancora sperimentando nuove idee come quando avevo ventitré anni».
I Whatever segnano un tuo ritorno alle tue origini jazz da cui sei partito?
«L’idea che sta alla base di questo nuovo progetto è il revival. Revival di musica acustica che comprende tradizione, jazz e folk. John Lewis del Modern Jazz Quartet ha detto: ‘tutto quello che suoniamo è blues!’. Per me tutta la musica è folk: la gente oggi è venuta ad ascoltare musica, essi costituiscono l’audience, sul palco delle altre persone suonano per loro; questo crea la comunicazione ed è la cosa più importante, al di là del fatto che ci siano venti o duemila spettatori: è il contesto che fa sì che tutta la musica possa essere considerata ‘popolare’. Spesso definiscono la mia musica world-music o cross-over, cross-over fusion, cross-over world-music fusion, cross-jazz-folk fusion. Io dico che è musica che viene dal cuore. Ho suonato con la stessa intensità con Madi Diabate, Bert Jansch o Alice. La gente non ha steccati ma mentalità aperta».
In campo discografico però esistono questi steccati.
«Sì, è normale, perché un disco deve essere riposto in una sezione ben precisa del negozio. Per quanto mi riguarda, fare un disco etichettabile come jazz o folk sarebbe più facile, rendendo più agevole la sua classificazione. Quando dico ‘Whatever’ (‘qualsiasi cosa’, ndr), in che sezione pensi di poter mettere un nostro disco? Mi piacerebbe che ogni negozio di disco nel mondo avesse una sezione denominata “qualsiasi cosa”».
Con il pretesto del nome (Whatever) puoi quindi suonare quello che vuoi.
«Già, se mi chiedono che tipo di musica faccio, io rispondo ‘qualsiasi cosa’. Il nodo delle scelte viene concentrato in queste due parole».
Vuoi parlarci dei musicisti che ti accompagnano?
«Tony Roberts è un mio vecchio amico, porta con sé tradizione e improvvisazione, con lui e John McLaughlin avevamo costituito un trio nel 1967 e facevamo qualcosa di simile a quello che stiamo facendo adesso. Dopo il primo album pubblicato come trio (con Roberts e Bernie Holland) volevo introdurre un solista vigoroso, così la scelta di Paul Dunmall è stata la più ovvia. John Etheridge, che ha avuto diverse esperienze in ambito jazz, rock e fingerstyle, è arrivato dopo che Bernie Holland si è unito al gruppo di Van Morrison. Ognuno di questi musicisti ha un percorso diverso, ma tutti condividiamo il comune interesse per i più disparati generi musicali».
Molti musicisti utilizzano aromi presi da culture tradizionali.
«Sì, anch’io utilizzo elementi provenienti dalla tradizione: scandinava, bulgara, inglese e scozzese».
Ma forse il tuo approccio è diverso, c’è uno studio sui parametri musicali…
«La questione è diversa: il punto essenziale è che ogni grande musica deriva dalla musica contadina, non dalle accademie. Puoi anche non aver studiato o fatto estenuanti esercizi sullo strumento e ciononostante riuscire a suonare brani di diverse tradizioni. Non c’è dietro uno studio rigoroso, la gente viene ai concerti, sente un brano scandinavo o bulgaro e rimane sorpresa e interessata ala tempo stesso. Riproporre rigorosamente musica etnica suonerebbe come molto accademico e questo non lo vogliamo».
Quali sono i bassisti che ti hanno influenzato?
«Quelli della vecchia scuola come Jimmy Blanton, Scott laFaro, Rey Brown e Charlie Mingus. Non ascolto criticamente altri musicisti».
Quali elementi prediligi nel tuo modo di suonare?
«La timbrica, la tonalità e il tempo. La velocità non mi dice nulla: il contrabbasso è uno strumento ritmico, che deve legare gli altri strumenti e dare unità al collettivo».
Da cosa nasce la scelta di suonare senza batteria?
«Mi piacciono gli spazi vuoti, la batteria riempie troppo; inoltre i batteristi non stanno mai fermi, sono come dei bambini, per non parlare dello spazio che occupa il loro strumento nel bagagliaio della macchina».
Per finire, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
«Un album blues, con una band di sette elementi, un album duro e sporco, non preciso, non puro, con due batterie forse (ride, ndr)».
da: “Auditorium”, n.8, 1991 © altremusiche.it / Michele Coralli
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