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Hanno iniziato a comporre musica per il teatro per poi incidere nel 1999 il loro primo CD (“Bromo”). Da allora hanno lavorato all’interno di un fertile sottobosco alternative, divenendo ben presto una cult- band, apprezzata in Europa e Stati Uniti. A costruire questa piccola, ma meritata fama una grande abilità tecnica, la capacità di gestire incroci e accostamenti di genere mai pretestuosi e soprattutto una grande coerenza che ha sempre messo in primo piano una professionalità gestita per così dire “dal basso”. Registrazioni in analogico, set strumentali austeri quanto efficaci, questo trio esplosivo, che fonde hard-core e jazz secondo attitudini care a gente come Naked City, Doctor Nerve o Blast, punta tutto sui propri mezzi semplificati: quindi niente digitale, niente effetti, niente post-produzione. Poi alcune importanti collaborazioni con personaggi del calibro di Eugene Chadbourne, ma soprattutto una fittissima agenda di concerti che ha messo a dura prova il gruppo romano (formato da Massimo Pupillo al basso, Jacopo Battaglia alla batteria e Luca T. Mai ai sax alto e baritono), ogni anno in tournée con un centinaio di date in giro per il mondo. Alcuni loro dischi (come “Radiale”) sono stati incisi presso gli studi Electrical Audio di Chicago assieme a Steve Albini: una scelta dettata, più che dalla consueta esterofilia di molti musicisti di casa nostra, dalla necessità di mantenere analogicamente i suoni tipici di Zu, quelli che si possono apprezzare in una loro performance dal vivo.
Ne parliamo assieme a Pupillo e Battaglia dopo il loro concerto milanese che chiude la tournée primaverile (del 2004, NdR) al Bääfest di Milano, una due giorni che ha visto avvicendarsi molti altri gruppi come Tasaday, Freetto Meesto, Sinistri e Tanake.
Il set che abbiamo visto stasera è quello tipico oppure avete utilizzato in questa occasione una strumentazione semplificata, visto il rapido cambio palco?
Jacopo Battaglia: «No è il nostro set tipico, quello che cambia è ciò che suoniamo. Si può dire che ogni sera facciamo un concerto diverso, che sfrutta diversi timbri e diversi momenti di improvvisazione. Dal punto di vista della strumentazione diciamo che non cambia molto da concerto a concerto».
Un set molto asciutto quindi, con sax, basso e batteria, e basta.
JB: «Molto semplice e ridotto, fondamentalmente acustico. Non utilizziamo nessun tipo di effetto o di aggeggio digitale, a parte un pedale Ratt che usa Massimo, anche se pure lui tra poco cambierà la testata eliminandolo definitivamente».
Massimo Pupillo: «Sì ho trovato un amplificatore per basso canadese degli anni ’60 che si chiama Treynor, poco conosciuto e senza alcun valore di mercato. Mi è stato consigliato da Steve Albini per i nostri concerti americani. Ho fatto quel tour con la sua testata per basso, eliminando il pedale che attualmente uso per la distorsione. La mia idea è che anche il pedale non dovrebbe servire a nulla. Con questa testa ho trovato il modo di farlo. Tutto il gain e il segnale, che mi serve per fare questo tipo di musica, non ha bisogno di nulla in più».
Un’austerità che però si deve compensare con un buon basso. Cosa mi dici di quello che usi ora?
MP: «Si tratta di un basso artigianale inglese, si chiama JD, dal nome dell’artigiano che lo fabbrica, John Dickins. È famoso perché negli anni ’80 lo utilizzava il bassista dei Level 42, con cui per la verità non ho molto a che fare. Però devo dire che è un basso magnifico, costruito su un pezzo unico in mogano e tastiera in ebano. Ha delle armoniche pazzesche proprio perché è un unico pezzo di legno. Ormai ha vent’anni, ha la sua vita e io, devo dire, l’ho fatto vivere molto».
A giudicare da come lo utilizzi ha un’ottima resa, soprattutto nelle parti più acute.
MP: «Ha davvero tutto: il basso e, volendo, la chitarra nelle parti acute. È molto definito e ha molto attacco. Del resto è uno strumento artigianale fatto con grande cura».
In generale l’essenzialità è una vostra caratteristica dal vivo, ma mi sembra che distingua anche le registrazioni dei vostri dischi.
JB: «Sì, gli ultimi due dischi sono stati registrati su nastro a due pollici, completamente in analogico, tutto in presa diretta».
Si tratta quindi di dischi ADD?
JB: «Esattamente. Abbiamo già registrato otto dischi, ma questi ultimi lavori hanno reso di più rispetto agli altri. Una volta che abbiamo scoperto l’analogico non l’abbiamo più abbandonato. Per analogico intendo anche l’utilizzo del mixer senza alcun tipo di equalizzazione, cosa che rende quel suono molto più simile a quello che creiamo sul palco. Ma questo tipo di produzione non è casuale, perché ce la siamo andati a cercare. Nell’ultimo disco in particolare (Zu + Spaceways Inc., “Radiale”, Atavistic, 2004, Ndr) abbiamo lavorato con Albini e Bob Weston perché sapevamo che il loro metodo di lavoro consiste proprio nel rispecchiare esattamente ciò che esprime il gruppo dal vivo. La registrazione su 2 pollici e 24 piste, più il remixaggio su mezzo pollice, sicuramente appartengono a una concezione un po’ antica, però negli Stati Uniti è ancora lo standard. Lo standard se non altro di chi vuole registrare con Albini. In Italia infatti trovare studi che registrino con certe caratteristiche è davvero complicato, mentre negli Stati Uniti è molto più semplice, ed è per questo che ho parlato di standard. Lì se vai in uno studio è più facile che trovi un registratore Schuler a 24 piste analogico. In Italia non ce ne sono tanti…».
E poi quel tipo di produzione in Italia costa molto…
JB: «Esatto».
Quindi voi ora con in digitale non volete avere più niente a che fare?
JB: «Il digitale, per il fatto di registrare su hard disk, è interessante dal punto di vista compositivo. Ci è infatti capitato di comporre cose preregistrate, come improvvisazioni di 20 minuti successivamente rielaborate. Il digitale ti permette di prendere nei 20 minuti le cose che più ti interessano in maniera semplicissima, attraverso programmi come Sound Forge o Xprq che diventano veri e propri strumenti utili anche per comporre in maniera organica. La possibilità di avere un editing non distruttivo, ovvero che ti consente di recuperare tutto quello che fai, è sicuramente una delle cose più interessanti del digitale».
Mi sembra di capire che però il vostro modo di comporre non fa molto riferimento a questo tipo di metodologia. La vostra musica è troppo complessa, soprattutto dal punto di vista metrico, perché si possa pensare a un semplice “taglia e incolla”.
MP: «I nostri pezzi, contrariamente a quanto si potrebbe credere, nascono abbastanza spontaneamente. Siamo arrivati a elaborare uno stile nostro, abbastanza personale. Le composizioni, soprattutto in questi ultimi anni, nascono a partire da alcuni momenti estemporanei catturati dal vivo, come le improvvisazioni sui pezzi o addirittura le prove durante il sound check. Spesso vengono fuori cose che cerchiamo subito di fermare, per ricordarcene poi in seguito e svilupparle con calma. Abbiamo un sacco di registrazioni di questo tipo: a volte capita che da 5 ore di improvvisazioni estrapoliamo magari anche solamente 10 secondi».
JB: «Sì, quei 10 secondi diventano un pretesto o semplicemente un punto di partenza. Spesso accade infatti che ciò che poi si sviluppa non ha più niente a che vedere rispetto a quell’idea iniziale. Per noi allora certi momenti diventano lo stimolo per lavorare su qualcosa di nuovo. Capisci che facendo 150 date all’anno, occasioni di questo tipo non ci mancano certamente…».
Parlando di bassisti un certo uso del basso, per così dire “a tutto campo”, mi ha ricordato gente come Les Claypol, soprattutto nell’uso della distorsione, anche se poi lui fa molto più slapping rispetto a te.
MP: «Sì, fa molto slapping e tapping, però non rientra nei miei modelli. Tecnicamente non gli puoi dire nulla, però non mi piace come compositore. La sua musica si basa su un riff che viene ripetuto, alzato o abbassato. Esistono, a mio parere, bassisti elettrici e contrabbassisti, che hanno sviluppato lo strumento in modo molto più incisivo rispetto a Claypol, a cui mi ca
pita spesso di venir paragonato, anche se non lo sento molto vicino. Potrà stupirti ma il mio bassista preferito è uno strumentista con cui, né tecnicamente, né con il modo di intendere lo strumento, c’entro nulla: si tratta di Mike Watt, bassista di Minutemen, Stooges e Firehose. Mi interessano cioè quei bassisti che mettono il basso al centro della composizione e credo che musicisti come Charles Mingus siano stati i primi a concepire la linea di basso come il fulcro dello sviluppo di una composizione. L’idea più importante che riguarda il basso, per me, è questa. Personalmente credo però che continui a rimanere uno strumento che non è ancora stato sviluppato fino in fondo, proprio perché viene ancora utilizzato come strumento da accompagnamento che si affianca alla chitarra, mentre invece avrebbe tutte le caratteristiche per essere completamente autosufficiente».
Allarghiamo il discorso al vostro modo di suonare come gruppo. Quelli che più mi ricordate da vicino sono i Doctor Nerve.
JB: «Beh è un nome grosso quello che fai! Inizialmente, attorno al 1997, i Doctor Nerve sono stati per noi una specie di ponte ideale. Quei gruppi, come anche i Blast, erano vicini a molte di quelle cose che facevamo in quel periodo. Adesso invece credo che sia completamente diverso il nostro modo di comporre, come è giusto che sia…».
Avevate contatti con quell’area post-progressiva?
JB: «Sì, a che il termine progressive mi mette sempre un po’ a disagio».
Effettivamente anche a me, anche se bisogna dire che in Italia c’è una mal riposta idea di rock progressivo che continua a essere correlata a gruppi come le Orme e a quel modo un po’ kitsch e pomposo di proporsi. Varrebbe invece la pena valorizzare quell’area più concretamente legata all’idea di “progresso in musica” come King Crimson o Henry Cow…
JB: «Beh, visto che nomini Henry Cow devo dire che considero Chris Cutler un grandissimo, anche se quando ho iniziato a suonare il mio drumming era di derivazione più hard-core. Solo successivamente sono entrato in contatto con tutte quelle altre musiche completamente diverse».
Ho notato che il tuo set, molto tradizionale, si distingue per un rullante aggiunto al fianco del charleston.
JB: «Sì, lo uso a mo’ di timbales al posto di un tom che ho tolto. L’ho portato due toni sopra, rispetto a rullante centrale».
Molti batteristi tendono a ridurre via via i pezzi, in netta controtendenza rispetto a qualche anno fa, quando i batteristi scomparivano dietro tom e piatti. Cosa ne pensate di questa tendenza?
MP: «La riduzione dei materiali è un elemento interessante e per noi fondamentale. In pratica ti consente di decidere il tuo spazio e di scoprire quali sono i tuoi limiti all’interno di quello spazio. Non c’è più bisogno di decine di effetti o di miriadi di tom. Penso che Jacopo ti possa dire la stessa cosa. Credo insomma che sia sufficiente un buon basso e un buon amplificatore per trovare un’infinità di cose interessanti».
JB: «Certo, ovviamente dipende molto dallo strumento che si usa. Però, ad esempio, anche un singolo tamburo racchiude tutto un mondo da scoprire. Con la batteria che ho ora, una Gretsch del ’71, ho scoperto timbri che non conoscevo assolutamente. Prima suonavo una Tama con dei suoni tutti uguali, ma ora la Gretsch mi ha davvero aperto la mente sulla batteria. In particolare gli strumenti vecchi hanno dei suoni molto controllabili. Le batterie che hanno trent’anni le puoi modificare a tuo piacere, mentre la maggior parte delle batterie costruite oggi – e soprattutto quelle fatte in Corea -, non hanno quasi per niente personalità e moltissime sono uguali tra loro. Non voglio fare quello che ha suonato seicento batterie diverse, ma molte di quelle che ho suonato sono limitate a quel tipo di suono e timbricamente sono in grado di fare solo quello. La colpa è anche del legno usato, che viene trattato molto più industrialmente di prima. Quando percuoti una batteria fatta di legno lavorato artigianalmente ti ritorna indietro la storia di quel legno».
Parliamo di alcune vostre collaborazioni, in particolare quelle con il chitarrista Eugene Chadbourne e i rappers Dälek. Come si sono sposate esperienze tanto diverse?
MP: «Direi molto bene, anche perché la nostra idea rispetto a quello che facciamo non si lega tanto a un genere, quanto all’intuizione di quello che vogliamo cercare. Con Dälek ci siamo trovati perfettamente, anche perché loro sono dei bastardi dell’hip hop, godendo di maggior considerazione in un pubblico d’avanguardia, rispetto agli ambienti più strettamente legati al rap».
L’hip hop si basa molto su ritmiche regolari, spesso in 4/4: l’antitesti ritmica rispetto alla musica che fate voi.
MP: «Guarda loro sono un gruppo hip hop molto aperto. Tanto per dirti, sono dei grandi fan dei Faust, con cui hanno prodotto un disco proprio in questo periodo. Tutto questo ci rende molto simili, al di là dei generi».
JB: «La nostra collaborazione con Dälek è nata alla fine di un tour che abbiamo fatto insieme. In un solo giorno abbiamo registrato 8 ore su Adat in uno studio di Milano. Loro poi hanno utilizzato quel materiale per farne quello che sembrava più organico al loro modo di cantare. Questo, per tornare al discorso di prima, è una delle potenzialità del digitale. Fare tutto su nastro sarebbe stato in questo caso lunghissimo e molto faticoso».
Chadbourne è invece un campione dell’analogico.
MP: «Sì con lui ci siamo trovati molto spontaneamente sul palco a improvvisare. Da lì è nato il primo disco, mentre nel secondo abbiamo ripreso delle cover di Motorhead e Black Sabbath, rivisitate e distrutte».
Spesso lui si dimostra molto sfuggente. Riusciva a starvi dietro?
MP: «Beh guarda che lui è un musicista eccezionale. Sicuramente rappresenta la non-disciplina, ma è molto saldo».
D’altro canto voi sembrate invece molto disciplinati.
JB: «Ci ha aiutato molto l’aver lavorato nel teatro nell’esecuzione di musiche di commento eseguite dal vivo. Il fatto di dover lavorare con 15 o 20 persone diverse ci ha un po’ disciplinato, anche se poi molte delle cose che facciamo nascono da un altissimo grado di libertà. Come ti dicevo prima, i pezzi sono quelli, però cambiano spesso: possono cioè essere interpretati in qualche modo particolare, oppure rivisti o cambiati. È brutto dirlo così, ma concettualmente questo è un approccio abbastanza jazzistico, anche se siamo in un ambito completamente diverso. Ovvero non stiamo eseguendo niente, ma semmai reinterpretando quei brani ogni sera. Del resto sarebbe folle ripetere le stesse cose in modo uguale per una centinaio di sere di seguito: sarebbe come lavorare da McDonald!».
A proposito di approccio jazzistico, si inserisce perfettamente l’omaggio ad alcuni meastri della musica afroamericana come Art Ensemble of Chicago e Sun Ra, ma anche Funkadelic.
MP: «Con “Radiale” paghiamo un tributo alla nostre influenze. Dopo le cover di Black Sabbath con Chadbourne, anche quella è una scena che ci ha nutrito moltissimo e continua a farlo. Tutta quella musica è stata importante per noi, a partire da Coltrane, Mingus e Miles Davis. Si tratta, tra l’altro, della musica che continuiamo ad ascoltare sul nostro furgone: la sua grandezza sta nel fatto che è sempre in grado di porti degli interrogativi. Poi crescendo ti accorgi che a un certo punto arriva il momento in cui è giusto tributare il tuo omaggio a quei grandi musicisti. Ovviamente il nostro modo di omaggiare tutti i musicisti che sono stati importanti per noi è di interpretarli a modo nostro. Credo che questa sia l’unica maniera possibile per riconoscere il valore dei musicisti che hanno fatto la storia».
da “Strumenti Musicali” n278, settembre 2004 © altremusiche.it / Michele Coralli
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