Diamanda Galas: Malediction & Prayer [Teatro Lirico, Milano, 17 giugno 1997]

Michele Coralli

Il carattere è demone all’uomo
(Eraclito)

Lasciamo da parte gli aspetti esteriori dell’artista, che generalmente sono quelli che colpiscono l’impreparata stampa nostrana, lasciamo stare l’enigmatica ambiguità gnoseologica (che – a nostro parere, ma non è una giustificazione moralistica – considera il Maligno più come metafora che come atto di fede), accantoniamo gli atteggiamenti provocatori dell’artista, la sua diffidenza nei confronti del pubblico e dei mass-media, ignoriamo il suo aspetto truce e inquietante; rimane ciò che più ci interessa di questa grande musicista/performer: la sua musica, la sua voce.

In un ora e mezza di recital, accompagnata dal solo pianoforte, del quale dimostra di avere un’ottima padronanza, percorre un viaggio di introspezione e scatenamento delle pulsioni psichiche che non ha uguali. Si parla spesso di Diamanda Galas come di un’artista che suona in stato di estasi e di possessione, agevolando una semplificazione che porta all’esorcizzazione degli aspetti apparentemente morbosi, per la paura dei contenuti scomodi (il diavolo l’ha inventato la chiesa per terrorizzare i fedeli e renderli più remissivi di fronte ad un Dio onnipotente). E se invece di usare la solita vecchia “tolleranza repressiva” (concetto caro a Marcuse), potessimo imparare confrontarci con le tesi politiche della Galas? Ci accorgeremmo che c’è dell’altro oltre all’iconografia di diavoletti con le corna e i tridenti! Riportiamo da un’intervista una considerazione della cantante, in cui viene ipotizzato che in Africa “l’Organizzazione Mondiale della Sanità, mettendo in atto una massiccia campagna di vaccinazione antivaiolosa, abbia stimolato un virus dell’AIDS altrimenti latente.” (cit. dall’intervista a Diamanda Galas, a cura di “Forced Exposure”, in “musiche”, n.11, 1991, p.12). Allora ecco il vero messaggio. Ecco il ruolo extra-musicale o “sociale”: la Galas viene investita del ruolo di portavoce, presso l’umanità sana, dei dolori e delle angosce dei reietti, cioè dei malati di AIDS.

Chiedo venia: non ho rispettato i propositi ostentati nel cappello introduttivo, quelli di parlare della musica, ma la tentazione di rivendicare una maggiore attenzione nei confronti di artisti che non parlano di bulli e pupe e dei loro amori infranti era molto grossa.

La musica dicevamo. Ebbene il retaggio musicale di Diamanda Galas è assai variegato, ella pesca a piene mani dal repertorio blues (a ecco: la musica del diavolo!), dal gospel e dagli spirituals (è il Male che si serve del Bene per manifestarsi o il Bene che esorcizza il Male, purificando le sue nefandezze?), dalla tradizione classica (il diavolo c’è perfino in Mozart e Beethoven, considerati sempre e comunque il bambino prodigio e il genio infelice che descrive le allegre brigate di campagnoli), dalla musica popolare urbana greca (il rebétiko e il tabakaniótiko, eseguite negli anni tra le due guerre nei café amán del Pireo sono altre musiche maledette, nate dal sangue della guerra greco-turca tra il 1919 e il 1922). Questi sono gli orizzonti musicali della Galas, che riorganizza il suono, partendo dalle sue radici, dal motivo-essenza, per elaborare qualcosa di nuovo, lavorando sulle strutture musicali, trasformando i parametri: nei blues della musicista greco-americana, le armonie standard (triadi perfette con la 7ª) vengono elaborate in accordi eccedenti che superano la dissonanza ormai accettata della settima minore, secondo procedimenti che nella musica colta furono avviati già una ventina di lustri fa. Mentre i glissandi del cantato assumono proporzioni inumane (scusate se insisto, ma è necessario scomodare il diavolo o è sufficiente parlare di vero talento e di tecnica sublime?), così come i suoi timbri vocali esplorano zone rimosse e cancellate dalla coscienza collettiva, che solo personaggi come il mai sufficientemente rimpianto Demetrio Stratos hanno avuto la capacità di scandagliare. Testa, petto, naso, gola, diaframma: non si parlerà mai abbastanza della complessità dello strumento musicale per eccellenza, creato dalla natura e perfezionato dall’uomo, la sua voce. Mentre – a nostro personalissimo parere – si può considerare conclusa un certo tipo di sperimentazione legata ai suoni degli strumenti tradizionali (cosa potrà mai offrire, dal punto di vista timbrico, un violino, che non sia già stato messo in evidenza anche dagli esponenti delle appendici delle avanguardie storiche? cosa potrà ancora saltare fuori da strumenti come il pianoforte dopo tutte le preparazioni e i “maltrattamenti” che ha subìto in questi ultimi anni?), mentre, dicevamo, la sperimentazione strumentale è sempre più legata agli aspetti informatici e digitali, circa le capacità nascoste della voce si stanno aprendo territori vergini e molto stimolanti, soprattutto per merito di interpreti femminili. Penso a Meredith Monk e Joan LaBarbara naturalmente, anche se queste esprimono esperienze assai diverse tra loro.

Tornando a Diamanda Galas e al suo concerto, riproponiamo una scelta della scaletta che si è aperta, dopo un’entrata in scena alquanto misteriosa (logicamente la cantante gioca con il suo personaggio, anche se non appare la minima ironia), con un pezzo originale dai toni blues, Abel and Cain (tratto da Les fleurs du mal di Baudelaire). Se abbiamo accettato il poeta maledetto francese, processato per pubblicazione oscena, perché etichettare con un sorrisetto ipocrita coniando definizioni graziose come “gusto dark” o “moda demoniaca”, che equivale a condannare l’interpretazione da parte della Galas dei versi del poeta? Race d’Abel, dors, bois et mange / Dieu te sourit complaisamment // Race de Caïn, dans la fange / Rampe et meurs misérablement (Razza d’Abele, dormi, bevi e mangia / Dio ti sorride compiacente // Razza di Caino, nel fango / striscia e muori miserabilmente). Non si può intendere tutto ciò come qualcosa di politico ed esistenziale? I ricchi e i poveri, gli integrati e i disadattati, i sani e i malati?

Andando oltre troviamo un altro poeta francese, Gérard de Nerval con Artémis (da Chimere): Celle que j’aimai seul m’aime encor tendrement: / C’est la Mort – ou la Morte… O délice! O tourment! (Colei che io amai solo, teneramente mi ama / è la Morte – o la Morta… O delizia! O tormento!). La morte, di fronte alla quale l’uomo occidentale non riesce ancora a trovare delle risposte. La morte, che arriva sempre inaspettata.

Non poteva mancare allora anche Pasolini (che alla vita e alla morte volle dedicare due trilogie cinematografiche, la seconda delle quali rimase incompleta) con Supplica a mia madre (da Poesia in forma di rosa): Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi hai data. Ce n’è abbastanza per tracciare un’interpretazione psicoanalitica dell’arte, che però non è di nostra competenza. Fanno parte infine della scaletta del concerto anche brani di Johnny Cash, Phil Ochs, Son House, Mahalia Jackson e una fantastica My world is empty without you delle Supremes. Il tutto in assoluta discontinuità con l’originale, essendo ogni brano reinterpretato a partire dalle proprie basi melodiche, ritmiche e armoniche, oltre che stravolto da una voce di cui viene decantata l’estensione (come se l’ambito fosse una misura da record del mondo in salto in lungo!).

In definitiva il recital della Galas è stato un avvenimento intimamente coinvolgente, avendolo potuto apprezzare senza quelle che qualcuno ha definito in passato sovrastrutture, ma che potremmo definire anche pregiudizi, sia innoqui (facili infatuazioni per la nera Galas, che producono emulazioni modaiole) sia dannosi (la falsa tolleranza, come si diceva prima). E rendiamo omaggio al daímwn misterioso che “possiede” Diamanda Galas, il demone misterioso ed oscuro che secondo molti saggi e poeti greci costituisce l’essenza più pura e profonda (e libera) dell’anima e che la religione cattolica ha sempre reso oggetto di persecuzioni sanguinarie.

da: “Auditorium reviews”, n.1, 1997 © altremusiche.it / Michele Coralli

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