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Una formazione di rigorosa osservanza classica con studi di perfezionamento nelle accademie di più alto livello, poi, improvvisamente, l’illuminazione sulla via di Damasco o, per meglio dire, la radicale sterzata verso il mondo della contemporaneità nelle sue articolazioni possibili: il teatro, la performance, l’improvvisazione estemporanea, la nuova musica. Questo in estrema sintesi il percorso artistico di Alessandra Novaga, chitarrista, interprete e performer, che, nel presentarsi a chi ha a cuore lo scarto con il mondo di un mainstream dominante nei diversi comparti culturali, si fa cucire addosso un vestito su misura che abbina cinque diversi ritagli. Ogni scampolo del vestito è sì frutto della mente organizzativa di un compositore, ma l’input che individua “sarti” e “confezioni” parte proprio da Alessandra.
Trattandosi poi di un lavoro che, secondo quanto progettato in partenza, non prende le mosse dall’esecuzione di partiture tradizionali, bensì grafiche, ovvero caratterizzate da un’ampia presenza di margini di re-invenzione da parte dell’interprete, possiamo a tutti gli effetti considerare un disco come questo un buon ritratto dell’interprete Novaga, forse ancor più di quanto possa essere considerato zibaldone di musica contemporanea per chitarra elettrica.
Anche questo ci dice che, mai come in questo scorcio di secolo, l’arte contemporanea non solo valorizza se stessa, ma trova linfa assolutamente essenziale (ossia vitale) in quei performer in grado di riprodurla, o meno “benjaminamente”, di farla vivere attraverso il loro tempo.
Ricerca sul suono a 360 gradi con una chitarra elettrica, che trova l’esplosione dei grandi suoni saturi e il solletico di piccoli click parassiti. Spontanea propensione all’improvvisazione che qui trova, finalmente, legame con mondi che per anni si sono continuati a definire “radicali”, senza tuttavia capire mai pienamente il senso di tale definizione.
Cinque ritagli che provengono da altrettanti diversi compositori, giovani, per chi ha a cuore l’elemento anagrafico. Il primo è Vittorio Zago che propone Erosive Raindrops, partitura caratterizzata da una dicotomia che cerca un possibile equilibrio tra puntillismo rumoristico e fauvismo elettrico. Segue Sandro Mussida con In memoria, un circuito la cui ripetitività e simmetricità potrebbe evocare opere di autori come Alvin Lucier. L’americana Paula Matthusen ci presenta invece Collaborative Objects, dove la chitarra interpreta in modo fin troppo evidente se stessa con un suono inizialmente spoglio, per poi diventare fantasma di se stesso nel catturare interferenze elettromagnetiche. Poi il newyorkese Travis Just con International Hash Ring, un tessuto sonoro magmatico, scandito con estrema precisione da durate cronometriche che rendono la performance densa di movimenti dettati un’intensa gestualità. Chiude Untitled, January di Francesco Gagliardi, un lungo drone che dipinge l’interiorità di uno sguardo dal treno su un paesaggio invernale.
In conclusione “la camera dei giochi sonori” è un lavoro che, nel disegno sartoriale non prende in considerazione l’omogeneità delle parti (probabilmente più quella dell’abbinamento dei colori), ma ci parla della grande capacità di racconto della contemporaneità da parte di una musicista che ha cambiato prospettiva per rimettersi in gioco all’interno di una di quelle cornici meno rassicuranti, ma capaci di guardare con determinazione e senza timori al nostro futuro.
2014 © altremusiche.it
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