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Nonostante i rispettivi destini si siano incrociati in più occasioni a partire dal caldo 1969 a Parigi, luogo in cui convergono le punte più avanzate della musica afro-americana del tempo e dove nascono alcuni gioielli come i celebri Byg, nonostante anni di incontri in giro per il mondo e nonostante l’idea del duo li avesse sedotti già da lungo tempo, Braxton e Cyrille non avevano ancora avuto modo di lavorare attorno a un progetto comune. E sorprende non poco ascoltarli in quest’unica session catturata alla Wesleyan University il 26 ottobre del 2002, perché si ha l’impressione che questi due abbiano suonato insieme per anni, tale è l’intesa e soprattutto la condivisione di intenti. Conta senz’altro il fatto che entrambi siano riusciti ad invecchiare più che onorevolmente in un mondo, come quello dell’avanguardia jazz degli anni ’60/’70, che è riuscito a iscrivere all’ospizio mainstream molti di quei gloriosi musicisti. Qui invece siamo di fronte a una visione del mondo che ancora possiamo definire radicale, se con questo termine intendiamo un radicale attaccamento ai linguaggi sperimentati prima, sedimentati in anni di personali ricerche poi. Al di là di ogni semplificazione, è la musica di questo duo palindromo a mettere in evidenza le proprie qualità.
Partiamo dai colori che sono una delle bellezze che subito si manifestano. Il drumming di Cyrille, per esempio, è semplice (apparentemente) e molto controllato, mai un eccesso, mai una sbavatura: un vero esempio di come andrebbero pensate le percussioni, senza eccedere e senza reprimere. Un utilizzo di ampie gamme timbriche, senza dover cercare il gommino di sostegno della grancassa. È fin quasi un piacere sentirlo battere le mani: un grande cuore “africano” che pulsa irregolare e asimmetrico.
E poi Braxton. A furia di dire che è un freddo intellettuale del jazz e un distaccato calcolatore, ci sembra l’esatto contrario: caldo e coinvolgente. Un musicista che ha percorso la sua strada, incurante di ogni possibile facile carriera nell’azienda dello show-business e che ha trovato un linguaggio unico, a-jazzistico, para-contemporaneo, sperimentale. Un musicista che ha saputo negare i più aberranti stereotipi del jazz di questi ultimi trent’anni. Braxton è riuscito anche a non farsi travolgere da certo nichilismo improvvisativo che produce spesso più tabulae rase che ricostruzioni. Come spiega invece lo stesso Braxton nell’esaustiva intervista inclusa nel secondo volume, l’approccio condiviso dai due ricalca l’idea transidiomatica dell’AACM, sbocciata dopo la prima ondata ristrutturalista di Ornette Coleman, Sun Ra e Cecil Taylor (con cui Cyrille ha suonato). L’idea della ricostruzione, agli antipodi rispetto all’impasto che produce la fusione, determina le mosse di questa raccolta di brani, suddivisi su un doppio volume separato da una dubbia scelta editoriale.
Pronti per possibili confronti, dall’altra parte dell’oceano, un altro duo stellare come Bennink/Parker, tanto per dirne uno…
2004 © altremusiche.it
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