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La London Jazz Composers Orchestra di Barry Guy è uno di quei progetti che può rimanere dormiente per qualche anno salvo poi rispuntare, allorché qualche esimia istituzione sia disposta a investire su una commissione o a finanziare la complessa logistica che un ensemble di questo genere comporta. In questo caso ci hanno pensato gli svizzeri del Schaffhauser Jazzfestival che hanno stimolato il direttore/compositore/contrabbasista Guy attorno all’idea di una composizione (con forte imprinting improvvisativo) ispirata all’idea “romantica” della radio come mezzo capace di dare un impulso creativo alla musica. Non bisogna dimenticare che proprio la radio ha determinato in passato un fondamentale sviluppo del linguaggio musicale, in tempi in cui sia la musica contemporanea che il miglior jazz erano, non solamente ospiti graditi in modulazione di frequenza, ma essi stessi protagonisti dell’evoluzione lessicale della musica proprio in virtù del rapporto con quel mezzo. Per inciso oggi questa idea “progressiva” ha totalmente abbandonato la radiofonia, lasciata in pasto all’industria dell’entertainment omologante e della pubblicità. In questo senso forse, per le musiche creative di oggi, si può intravedere nella rete l’unico spiraglio “sperimentale”.
Radio Rondo di Barry Guy è una lunga e bellissima suite orchestrale costruita attorno a un salutare progetto di molteplicità musicale nel quale personaggi come Paul Lytton, Mats Gustafsson, Trevor Watts, Lucas Niggli, Conrad Bauer, Evan Parker, Irene Schweizer e molto altri, vanno letteralmente a nozze. La LJCO, si sa, è uno di quegli organici, sopravvissuti al vento dell’omologazione jazzistica degli ultimi 30 anni, che raccoglie il meglio della scena jazzistica del Vecchio Continente. Chi ha frequentato musicalmente ambiti come Globe Unity o Istant Composers Pool non faticherà ad immaginarsi come orchestre del genere possano girare come delle vere e proprie turbine, capaci come sono di mantenere una compattezza talmente straordinaria da far dimenticare all’ascoltatore la complessa articolazione della partitura. Una partitura ovviamente da intendersi non come mero strumento cartaceo, ma come insieme di gesti, indicazioni e condotte che impongono con solidità la strada da percorrere.
Ad esempio nel rapporto dialettico tra orchestra e solista (in questo caso il pianoforte della Schweizer ha un ampio spazio di confronto) si possono cogliere i momenti più minuziosamente raffinati dell’intero brano. Una resa musicale che può guardare con orgoglio a certi concerti per pianoforte e orchestra di Béla Barók, tanto per gettare qualche ponte tra mondi dal nobile lignaggio.
La pianista svizzera si ritaglia anche un piano solo come sorta di introduzione all’esibizione live che conferma ancora una volta la sua grandissima verve strumentale e compositiva: una musicista, forse non cristallina come altri, ma che per quantità di colori e inventiva si dimostra davvero unica. Peccato non vederla spesso nei cartelloni dei nostri festival jazz un po’ misogini e provinciali, incapaci oltretutto di commissioni e sostegni alle realtà di spessore come questa LJCO.
2009 © altremusiche.it
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