Cassiber: “A Face We All Know”

Andrea Coralli
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Cassiber: “A Face We All Know” (Recommended Records, Rer CCD, 1991)

These fragments I have shored against my ruins
(T. S. Eliot, The Waste Land)

Dopo qualche anno di attesa, esce finalmente l’ultimo lavoro dei Cassiber. “A Face We All Know” era già stato registrato e missato fra il 1988 e il 1989 nello Studio di musica elettronica dell’Accademia delle arti dell’allora Repubblica democratica tedesca, a Berlino est. Il disco precedente, “Perfect Worlds”, risale al 1986. Una certa continuità lega le due opere: la formazione è sempre costituita a tre elementi (nelle prime produzioni del gruppo c’era anche il sassofonista Alfred Harth); permangono e sono anzi incrementati i campionamenti aspri e rumoristici di Heiner Goebbels, mentre il drumming spezzato e inconfondibile di Chris Cutler e le concitazioni vocali di Cristoph Anders sono quelli di sempre. Caratterizzano il disco in questione l’unitarietà di concezione (dovuto anche al lavoro di “ricucitura” eseguito, con l’ausilio del computer, da Goebbels) e il costante alternarsi della voce fra canto e recitazione, come già in “Der Mann im Fahrstuhl” dello stesso Goebbels.

La musica dei Cassiber si costituisce come declamazione secca, asciutta, fin marziale nel suo carattere didascalico, di frammenti testuali vitali ma lacerati, contornati da ingranaggi sonori estremi e di sovversivo rigore. L’opera si articola in tre parti, connesse reciprocamente da una serie di relazioni tematiche e ripetizioni di singole tessere musicali. La prima parte è omogeneamente costruita su quattro testi di Cutler, ripresi e incrociati in sei episodi musicali. Definiscono situazioni da stanza chiusa, fortemente claustrofobiche. La voce è più prossima al parlato che al cantato, e diviene addirittura recitante nel caso sia quella dello stesso Cutler (nel primo brano e in Old Gods). La musica, d’altra parte, non è semplice corollario del testo, ma la sua ragione profonda. Già la seconda traccia, Remember, impone la migliore tradizione Cassiber, con giro straniato di note basse di pianoforte su cui imposta il suo ritmo pressante la batteria e il cantato scandisce le sue ossessioni (“I remember everything. I see it all before my eyes. Even the words”). Momento conclusivo e culminante di questa prima parte è Gut, brano di Renè Lussier con una trama in tempo dispari (7/8) di pianoforte, iterata e accompagnata da innesti rumoristico-ritmici e voce urlante. Anche qui nelle migliori ossessioni Cassiber.

La seconda parte estrapola il testo da un libro del 1973 dello scrittore americano Thomas Pynchon, Gravity’s Rainbow, considerato “l’unico romanzo americano degno di stare accanto a Moby Dick” (M. Belpoliti, in “la talpa libri” del “manifesto” del 14/6/91, p. 3). Ancora sonorità “industriali” prevalgono su qualsiasi propensione “organica”. Il disco rende palese la sua poetica di rovine osservate e descritte con lucidità (“the fall of a crystal palace”). Questa seconda parte è un viaggio in una città derelitta da miserie e crolli (“great invisibile crashing”), uno Spillane filtrato dall’espressionismo. Sotto le macerie si distinguono armonie e fraseggi da rock ‘n roll, più celati in Start the show, manifesti in They go in under archways.

La terza e ultima parte, sintesi delle precedenti, ha ancora testi scritti da Cutler: considerazioni sulla difficoltà di vivere in questo mondo frenetico e alienante, in cui il tempo va sempre più veloce della nostra possibilità di raggiungerlo (Time gets faster), senza che sia concessa tregua (It’s never quite), e dove tutto costa troppo (“It’s all too expansive.It all costs too much. I won’t pay, I can’t pay. Don’t ask me”). Se A screaming holds è una schermata su quanto fin qui udito, un collage di lacerti dei brani precedenti e campionamenti martellanti, I was old è una canzone in forte antitesi con il resto dell’album, con le sue sdolcinature di finto idillio sottolineate da una chitarra pseudo hawaiana suonata da Goebbels, come a richiamare episodi di analoga fattura cantati, in “Der Mann”, da Arto Lindsay, con la sua voce soavemente ingenua. The way it was è una ripresa in chiave “dance” della prima traccia dell’album, su cui proliferano estratti di storici deliri fascisti, particolarmente inquietanti di questi tempi (riconoscibile, fra un Hitler e una barzelletta reaganiana, Mussolini, da 3:52). E l’ultimo brano, To move (anch’esso una ripresa), sembra quasi la descrizione musicale del pulviscolo che grava sull’aria dopo il crollo di un muro.

Critica al nuovo mondo, specchio dell’incertezza presente, messa in guardia per il futuro, “A Face We All Know” è a tutti gli effetti un’opera di musica contemporanea, come testimonia in margine il ringraziamento a Georg Katzer, musicista colto della Germania orientale dedito da anni a ricerche analoghe a quelle dei Cassiber. Fatta salva, naturalmente, l’imprescindibile matrice rock di questi ultimi.

da: Andrea Coralli, “Navigando sui mari di formaggio” 1996 © Michele Coralli

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