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L’arte improvvisativa di Cecil Taylor è uno dei cardini dell’arte musicale dei nostri tempi. Non c’è pianismo contemporaneo che possa competere in potenza e pertinenza con il linguaggio dell’afro-americano. La musica di Taylor è sempre stata radicale, eruttiva, emozionante, influente, mai banale, forse ripetitiva (o forse coerente), nota ad un pubblico non di soli jazzofili, ma anche di semplici amanti delle musiche meno allineate.
La cosa che ci sempre colpito in ogni sua composizione estemporanea è l’essere sempre in grado di cogliere un’essenza irripetibile quanto geniale. Chiamiamolo flusso a cascata, stream of consciousness, action painting, ma quell’intelaiatura stratificata, complessa, ricca di rimandi e sviluppi è sempre solida come la più meditata delle architetture, come la più geometrica delle simmetrie, come la più logica delle trame narrative. E tutto questo è opera del genio, non dell’intrattenitore che mette le mani sul pianoforte.
La Unit di Taylor è qui ripresa in una session del 1981 al festival jazz di Friburgo in un momento di rara intensità. Accanto all’eruttivo pianista, un trio (formato da Jimmy Lyons al sax alto, William Parker al contrabbasso e Rashid Bakr alla batteria) che, con una diga di cemento contrapposta alla lava incandescente, riporta la musica di Taylor (davvero fuori dimensione rispetto ogni tipo di certificazione di genere) su un terreno più orizzontale come quello di un free jazz che, seppur d’assalto, non è quanto di più astratto possa arrivare alle nostre orecchie. Ne esce una lotta tra un pianoforte che vola nell’iperspazio alimentato dal carburante di decine di compositori stipati nel serbatoio – Bartók, per esempio, cosa avrebbe pensato di Taylor? -, però teleguidato su una rotta sicura (almeno nei punti di partenza e di arrivo): l’unità jazzistica tardo free. Quali mondi ha toccato e che eredità ci ha lasciato quella musica? Abbiamo perso i contatti con quell’astronave, tra qualche anno forse rientrerà nel nostro radar…
2007 © altremusiche.it
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