Chadbourne versus Jenkins [Pingeons, Londra, 29 ottobre 1998]

Michele Coralli

Nella periferia londinese di Stratford, tra le grosse arterie di collegamento con la City e gli imponenti lavori di ammodernamento della linea ferroviaria, ascoltiamo due musicisti che da anni percorrono le strade della scena creativa: l’americano Eugene Chadbourne e l’inglese Billy Jenkins. La produzione discografica dei due si aggira attorno a un centinaio di dischi che si muovono nelle direzioni più disparate dell’improvvisazione e del blues radicale. Solo per citare alcune delle loro collaborazioni: John Zorn, Jello Biafra, Ben Elton, Voice of the People, Blues Collective, True Love Collection, Cream.

Il Pigeons di Romford Road è un pub con live shows aperti a contesti innovativi, ma calati sempre in una condizione di “intrattenimento”. L’impressione è che si possa fare della musica “eterodossa” anche tra i rumori dei bicchieri che vengono vuotati a ritmi vertiginosi e il brusio costante che prevarica certi momenti di assottigliamento del volume sonoro.

Chadbourne e Jenkins non sembrano preoccuparsene appena incominciano una lunga suite improvvisativa, che prende le mosse da brevi cellule tematiche di sapore jazzistico, spezzate qua e là da improvvise rotture della struttura ritmica. L’intesa tra i due sembra procedere in assoluta naturalezza su pattern più o meno precostituiti, spesso introdotti dall’americano, che conducono verso ritmiche orientate sempre più spesso al blues e al country, radici delle scelte improvvisative del duetto. Se Chadbourne svolge un ruolo quasi direttivo, Jenkins segue timidamente l’incontenibile fantasia produttiva del primo. Passano così i primi quarantacinque minuti in bilico tra l’apertura a un contegno jazzistico e un atteggiamento denigratorio e divertito che fa del rumore un’espressione che mira a coinvolgere più che a provocare.

La “cheap guitar” da banco dei pegni di Chadbourne è un’incredibile meccanismo di produzione di suoni rividi e graffianti: si tratta di una semi-acustica polverosa e disordinata, con i pick-up smontati completamente e riapplicati all’interno della cassa armonica, da cui protende un enorme ciuffo di vecchie corde che vengono scosse oppure fatte vibrare sopra quelle in tensione; nella mani di Chadbourne diventa un sorprendente oggetto sonoro che ha il medesimo fascino delle espressioni facciali divertite del suo possessore. Un breve riff, che evoca un contesto rock di facile presa, viene accompagnato dalla mimica comica del bonario chitarrista che sul palco riesce a esprimere tutta la sua serenità e la sua gioia di vivere. Jenkins, da parte sua, sembra cercare con lo sguardo la guida dell’americano: i suoi interventi appaiono inizialmente di risposta alle sollecitazioni più che di proposizione. Ma non sarebbe onesto considerare Jenkins un mero gregario. Con il passare del tempo, infatti, la sua performance diventa via via più disinvolta: il suo chitarrismo esprime pulizia e potenza, caratteristiche che si contrappongono in maniera dialettica al disordinato e delicato Chadbourne.

Tra la prima e la seconda sessione si esibiscono gli inglesi Kenny Process Team, trio progressive di basso, chitarra e percussioni, il cui genere è riconducibile per certi versi alla musica dei Curlew, da una parte (ma meno ricca di rimandi di quella), e certi lavori degli U-Totem. Prevale un senso di allegria ed epigrammaticità. I brani, costruiti su brevi giri sincopati, non durano più di tre o quattro minuti e privilegiano armonie maggiori, poco stridenti ma accattivanti.

La seconda parte del concerto dei due chitarristi è maggiormente impostata su lunghe suite blues (rurale americano e melodico britannico) e country, filtrati dalla continua volontà di rottura della struttura a dodici battute, che viene ripresa e abbandonata con grande libertà. I testi di Chadbourne nascono spesso da spunti del momento: dalla possibilità di riavere indietro i soldi del concerto alle bizze di un microfono che continua a girarsi attorno al proprio perno, costringendo Chadbourne ad una posa goffa.

Dopo l’esibizione incontro Eugene per una sfuggente chiacchierata e i complimenti di rito. “Se va tutto bene – dice – verrò in Italia a gennaio.” We are looking forward.

da: “Auditorium reviews”, n.4, 1999 © Michele Coralli

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