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Lo chiamano “djing distruttivo” ed è una tendenza che mette insieme le pratiche dei manipolatori di giradischi (il cosiddetto turntablism) con l’attenzione nei confronti dei suoni concreti catturati sul campo e ricombinati poi in studio, oppure creati e ricombinati direttamente dal vivo (la cosiddetta musique concréte di parigina memoria). L’atteggiamento non è nuovo, ma sembra oggi aver trovato un’inedita spinta radicale, che determina scelte sempre più felicemente adagiate sul terreno del rumore giocato sulle microfrequenze, come quelle di una testina che salta. Claudio Rocchetti è uno di quelli che raramente prendono in considerazione strumenti che esulino dai consueti giradischi, radio, registratori, microfoni e gli oggetti che in qualche modo a questi si legano.
Prima di tutto mi piacerebbe sapere qual’è il tuo background musicale (e culturale).
«Sono sempre stato onnivoro in fatto di musica e da quando ho tredici anni ascolto cose molto diverse tra loro. Come musicista ho iniziato suonando il basso e la chitarra in formazioni hard core e noise. Poi, più o meno a vent’anni, ho scoperto il djing e la musica propriamente sperimentale. Se invece intendi sapere da cosa sono influenzato ora ti direi: il cinema (il Far-East Cinema e l’Hollywood anni ’80), l’hard core dell’89, tutte le persone con le quali ho suonato nel tempo, poi David Bowie, l’idea di musique concrète e Thomas Bernhard».
C’è una scena free form che si sta sviluppando anche in Italia, in cui convergono improvvisazione e live media. Questo senza passare da approcci più “rigorosi” rispetto al passato (vedi free jazz o avanguardia). Non credi che, a fronte di un’iperproduzione di proposte sarebbe necessario fissare qualche punto per determinare una sorta di manifesto della nuova musica elettronica o livemediale che dir si voglia?
«Non mi sento parte di una scena e i live media non mi interessano particolarmente. L’unico mio progetto in tal senso è quello con Enrico Glerean, ed è nato innanzitutto per il nostro interesse comune per il cinema estremo orientale. I manifesti programmatici li trovo abbastanza deprimenti, eccezion fatta per i Futuristi. In genere cerco di ampliare le mie possibilità, non di limitarle o circoscriverle».
Alcuni tuoi lavori sembrano appartenere ad orizzonti differenti. The work called Kitano mi sembra caratterizzato da un approccio impro molto casalingo e, oserei dire, naif, mentre Pocket progressive, assieme a Fhievel e Luca Sigurtà è quasi una radicale esibizione di nichilismo sonoro, in cui l’atteggiamento potrebbe apparire molto autoreferenziale. Hong Kong Dreaming (in Live!iXem 2004) infine un lavoro in cui è più forte la componente comunicativa (quasi un cortometraggio). Non credi che per artisti come te sia più consono l’appoggio espressivo di altri media, rispetto al vecchio supporto acustico?
«I lavori da te citati appartengono a periodi diversi, The work called Kitano è una raccolta di pezzi brevi che ruota attorno ad alcuni temi, la memoria e la malinconia, ma in realtà racchiude brani molto differenti. Pocket progressive è un disco impro che cerca di reinventarsi, usando gli strumenti ormai classici del genere. Mentre del progetto con Enrico hai detto bene, sembra un cortometraggio, perché in effetti quella della narratività è una delle priorità che ci siamo dati. Nel complesso credo invece che l’orizzonte sia sempre lo stesso. Gli strumenti base sono sempre i giradischi, la radio e le audiocassette e anche rispetto ai temi credo di sviluppare sempre tutto attorno a poche parole chiave: la memoria e l’assenza. Se poi appare comunque mobile e differente (almeno in una certa misura) è perché non riesco a ragionare per grandi sistemi, amo il non-finito, l’appunto, l’aforisma. E un pezzo è finito solo quando non riesco più ad ascoltarlo e ad aggiungervi nulla, non certo quando risponde a delle domande più o meno programmatiche».
3Quarters è un progetto che si spinge a una maggiore comunicabilità rispetto a Pocket Progressive e altri tuoi lavori. Intendo con questo la presenza di parametri culturalmente collocabili come armonie, tempi, frasi melodiche. Cosa vuol dire per te comunicare con i suoni?
«I 3/4 sono un trio, ora allargato a quartetto con l’arrivo di Toni Arrabito alla batteria. Nell’instabilità musicale del progetto si rispecchiano le nostre personalità e i nostri percorsi differenti. Non so dire molto a proposito della comunicabilità, mi rendo conto che molto spesso si rischia una deriva autoreferenziale che taglia fuori ogni tipo di comunicazione immediata (e non credo che sia un difetto). Viene richiesto all’ascoltatore di possedere un certo tipo di conoscenze e strumenti interpretativi. Ma è quello che accade con qualsiasi altro “genere”, dalla contemporanea al grind. Il trio di Pocket Progressive è focalizzato su di un solo aspetto, come incastrato, fossilizzato su di un gesto. Mentre i 3/4 giocano con i generi tentando di rovistare tra tutte le pieghe della musica, tra tutte le possibilità».
So che al momento vivi a Berlino. Come si vive in quella città e quali sono gli stimoli che riesci a trovare lì?
«Berlino è di gran lunga la metropoli più vivibile d’Europa, senza dubbio. Ed inoltre offre moltissimo, l’attività musicale è impressionante, ma è tutta la città a pulsare incessantemente. In questo momento non potrei vivere altrove».
Che strumenti ti sei portato dietro e come ti sei organizzato per suonare nella capitale tedesca?
«Principalmente lavoro con mezzi molto poveri: radio, giradischi modificati, audiocassette. Quando ho traslocato qui a Berlino mi sono portato dietro solo il mixer e il minidisc. Il resto l’ho acquistato qui, nei negozi di elettronica di consumo e nei mercatini dell’usato. Per i field recordings e per i live uso microfoni da intervista che si possono acquistare in un qualsiasi centro commerciale per pochi euro, e questo vale per quasi tutta la mia strumentazione».
E quali sono i tuoi campi preferiti per effettuare le registrazioni e cosa ti incuriosisce di più quando devi registrare qualcosa da poi processare?
«Mi interessano i luoghi dove la presenza umana è negata o cancellata, ma dove si può ancora sentire il riverbero di quella presenza. Case abbandonate, stazioni metropolitane chiuse, spazi nei quali la natura si fa largo tra il cemento e si riprende una parte di quello che le è stato rubato. In seguito non “processo” mai i field-recordings, li uso come materiale grezzo durante i live oppure, così come sono, all’interno delle composizioni. In effetti la performance avviene durante la registrazione dei field, e non dopo, attraverso la scelta dei mezzi e delle tecniche».
maggio 2005 © altremusiche.it / Michele Coralli
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