Diario berlinese

Foto: Michele Coralli
Michele Coralli

Arrivo a Schönefeld mentre alla Philharmonie Kent Nagano dirige la Deutsches Symphonie Orchester, Yuri Bashmet e i solisti di Mosca eseguono un programma di musica russa del Novecento allo Schloss Neuhardenberg, presso la Konzerthaus Berlin si tiene un concerto di Neue Musik con un programma equamente spartito tra Battistelli e Bussotti, all’Universität der Künste Berlin si esibiscono quelli della Berliner Symphonikern e in uno di quei ritrovi tipicamente alternativi, l’Ausland, si svolge un concerto di musica elettronica improvvisata.
Per il mio soggiorno non ho programmato appuntamenti musicali, mi preme maggiormente cogliere il paesaggio sonoro e architettonico berlinese, anche perché penso sempre che giugno sia un mese di transizione tra la stagione musicale ordinaria e le programmazioni estive, spesso costruite attorno eventi o intrattenimenti a basso profilo (anche se, a ben guardare, ogni città ha la programmazione che si merita). Ma poi una vacanza è una vacanza.

Voglio prima di tutto vedere i luoghi della ricostruzione del dopo-Wende, la celebrata e stoica riunificazione: quello sforzo titanico che ha colmato il vuoto lasciato dalla tabula rasa dei bombardamenti che dal ’43 azzerarono la struttura architettonica di Berlino e quello attorno alla cicatrice che ha separato due mondi, l’Est e l’Ovest, violentemente contrapposti fino a pochi anni fa. Un’area che abbraccia luoghi ormai entrati nell’immaginario politico e culturale europeo: la Potsdamer Platz, il Bundestag, la Pariser Platz e gran parte di quella terra di nessuno coltivata a erbacce e Cortina di ferro tra il 1961 e il 1989. La divisione geopolitica che ha tagliato in due in mondo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale è passata di qui.

Nessuna città è – né può essere – come Berlino, un luogo che è monumento vivente al ricordo degli orrori dell’uomo. Un topos che sta rinascendo dalle ceneri, quelle reali dei forni crematori, quelle lasciate dalle fortezze volanti e quelle liberate dalle ruspe, dalle mani e dai picconi al lavoro per sgretolare quel muro la cui presenza è ancora forte tra le cicatrici che ancora marcano la città.
“Qui correva il muro tra il 1961 e il 1989”, è la frase che ricorre attorno ai segni che tracciano un percorso o su quei ruderi di cemento armato che sembrano appartenere a qualche antico costrutto medievale. Ma Berlino è la città delle cicatrici, non esibite ma nemmeno rimosse: ferite che servono da monito per il futuro, non solo ai berlinesi, ma all’Europa tutta e al mondo intero.
Forse nessun tipo di arte come l’architettura è capace di infondere un sentimento di stabilità e di fiducia, che è ottimismo e (forse) anche felicità reale, non indotta. Sono i luoghi delle architetture importanti quelli che producono musiche e pensieri creativi importanti. A Berlino dove c’era il vuoto della Potsdamer Platz, dipinta con la tristezza del bianco e nero di Wenders ne “Il cielo sopra Berlino”, è risorta quella vita urbana che è stata interrotta in questo luogo per più di cinquant’anni.
Alla piazza è dedicato un documentario, visibile presso la Neue Nationalgalerie, che ne ripercorre la storia in un susseguirsi di eventi quotidiani. Sempre giorno dopo giorno il documentario, mandato il loop, sedimenta la storia nelle memorie dei visitatori. Possiamo pensare a qualcosa di simile in Italia… Spunti possibili: piazza Venezia e Piazza Loreto?

A Sud dell’attuale Pariser Platz si ergeva il sinistro cuore del Terzo Reich: i quartieri generali della Gestapo, la Direzione generale delle SS e l’Ufficio di sicurezza del Reich, nomi che rappresentano migliaia di divise, migliaia di uomini e milioni di morti. Oggi quello spazio fisico porta un nome, pesante come un macigno: Topographie des Terrors. Nonostante la DDR abbia fatto piazza pulita di ogni singolo mattone nazista, l’aria che si respira in quell’enorme isolato è diversa da tutte le altre. È un’aria solida, la stessa che ci si accorge di respirare a Mauthausen, così come ad Auschwitz o alla Risiera di San Sabba. Un’aria che, sebbene faccia male, è nostro dovere civile respirare e farla respirare ai nostri figli, perché si possa sempre essere consci che non è solo l’inquinamento ad avvelenare l’aria. Lo sterminio è peggio di mille centrali termoelettriche.

Architettura significa costruire, ma anche distruggere per ricostruire. Credo che si possa considerare questo l’atto più concreto che l’uomo ha a sua disposizione per esorcizzare il male. Così, se è necessario che certi simboli non esistano più, come il centro direzionale della ferocia nazista, è anche obbligo per tutti che rimanga immutato nel tempo il ricordo delle conseguenze provocate da decenni di dissennatezze ideologiche, per il rispetto che si deve a milioni di vite spezzate. Anche questa è Resistenza. Distruggere per ricostruire.
Poco distanti da Pariser Platz e dalla Porta di Brandeburgo le 2711 stele che costituiscono il più grande mausoleo tedesco per le vittime della Shoah, l’Holocaust Memorial eretto nei mesi scorsi su progetto dell’architetto ebreo americano Peter Eisenman. Una triste e desolata onda di cemento composta da lapidi senza nome. Sarcofagi senza fiori per un cimitero senza morti. Sono serviti 27 milioni di euro per costruirlo, il mondo ne ha parlato e continua a farlo, sono soldi spesi bene. Era un atto dovuto. Forse tra quei percorsi molte persone cercano spiegazioni alla follia umana nel silenzio di una metropoli momentaneamente tagliata fuori.

In Lindenstrasse a Kreuzberg si erge la moderna sede del Jüdisches Museum Berlin, monumentale erede della struttura a cui la Gestapo aveva messo i sigilli nel 1938. L’attuale museo ebraico, opera dell’architetto Daniel Libeskind, si ispira agli angoli spigolosi della stella di David. Si tratta di un edificio che trascende le sue funzioni di contenitore per diventare esso stesso oggetto di attenzione (come non pensare al Centre Pompidou?). Tre le creazioni che al suo interno meritano un viaggio: la Holocaust-Turm, il Garten des Exils e l’istallazione di Menashe Kadishman “Shalechet” (Fallen Leaves). Tre opere irregolari, dagli spigoli scaleni che creano disagio al visitatore che le vive, prima di ragionarci sopra. Alla Torre dell’Olocausto si accede attraverso una porta pesante che introduce a una stanza buia con un tetto altissimo, un filo di luce che penetra da una fessura e un angolo strettissimo che richiama il visitatore al suo estremo per sondarne le dimensioni goniometriche. Il resto è solo freddo e livido cemento armato che tocchiamo nella speranza di scoprire un’altra sensazione oltre al nostro malessere. Il Giardino dell’Esilio con il suo ciottolato scomposto e obliquo non ci svela nell’immediato la ragione di un subitaneo disagio quale è quello di camminare sopra una dimensione non orizzontale. Il luogo, labirintico come l’Holocaust Memorial ma molto ridotto nelle dimensioni, non si può considerare angosciante, in quanto aperto e luminoso. È proprio la sfasatura a creare incertezza, più che non poter raggiungere quegli ulivi che vivono nel loro sereno isolamento sopra le piattaforme di cemento che separano gli uomini dal giardino. Infine l’istallazione Foglie Morte che deve essere scoperta, quasi ricercata. Non chiedete dov’è, ascoltatene il rumore che rimbalza tra gli spigoli dell’edificio. È bello scoprire che quel rumore è reale e non registrato, è metallico, non elaborato, scarno, nudo, quasi innaturale, eppure così spontaneo. È prodotto dai visitatori che vi precedono i quali calpestano decine di migliaia di volti anonimi, ricavate da dischi metallici.
Sorprese e poi riflessioni, riflessioni e poi sorprese. Un viaggio a Berlino è un viaggio di evasione. L’evasione dalla realtà del Grande Fratello e l’ingresso sul palcoscenico della Storia.

dicembre 2005 © altremusiche.it / Michele Coralli

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