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Due compositori americani contemporanei – di generazioni diverse – a confronto e un quartetto che ormai si è guadagnata una fama autorevole anche per merito della recente pubblicazione dell’integrale dei quartetti di Beethoven. Gli autori sono Edgar Meyer (Tulsa, 1960) con Quintet e Ned Rorem (Richmond, 1923) con String Quartet no.4; le loro opere sono datate rispettivamente 1995 e 1994. Costruito sui canonici quattro movimenti il quintetto di Meyer potrebbe essere definito un’opera tipicamente americana, non estranea ad influenze popolari, minimaliste o neoromantiche e di certa musica da film. Prevale il gusto per la melodia modaleggiante, per la ritmicità d’effetto e per la trasparenza armonica che non produce mai urti offensivi. Appare evidente come le esperienze del contrabbassista legate agli ambienti bluegrass (frangia virtuosistica del country con forti commistioni blues) influenzino la sua composizione, soprattutto nel secondo e nel quarto movimento.
Senz’altro un gruppo che ha segnato la via in questo tipo di confluenze e contaminazioni è stato, ed è tuttora, il Kronos Quartet e adesso sono in molti a seguirlo. Più maturo e coerente ci sembra il lavoro di Rorem, ispirato da alcuni quadri di Picasso. Il quartetto si articola infatti in dieci movimenti, ognuno dei quali riferito ad una precisa immagine iconografica. Ma, nonostante questo legame concettuale, la musica di questo quartetto è meno referenziale della precedente, nella misura in cui riesce a vivere indipendentemente dai propri modelli di riferimento. Centrale è il movimento detto Self Portait, che vuole riprodurre nella sua schizofrenia musicale “il ritratto del temperamento schizoide di ogni artista in conflitto tra l’urgenza espressiva e la chiusura del suo alter ego”. Non osiamo dire che ci sembra più moderno o maggiormente ‘novecentesco’ questo lavoro rispetto a quello di Meyer, poiché la modernità non sembra essere più una categoria assoluta, ma che la spigolosità e il rifiuto dell’effetto incontrano maggiormente la nostra sensibilità musicale, forse perché la nostra è ancora legata a certi canoni di ‘contemporaneità’.
da: “Amadeus”, n.103, 1998. © Paragon
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