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Nell’efficace connubio tra Nuova Musica e tradizione classica, Elena Casoli individua la formula per offrire ai suoi concerti (uno recente alla rassegna “To Sting” a Milano) un’immagine stratificata del suo strumento. La chitarrista milanese (studi musicali con Ruggero Chiesa e all’Accademia Chigiana con Oscar Ghiglia; ma può vantare anche premi internazionali come il “Segovia” nel 1989) svolge attività concertistica come solista, con orchestre sinfoniche e studi di elettronica e informatica musicale.
A che punto della tua formazione hai deciso di diventare un’interprete contemporanea e per quali motivi?
«Non è stata una scelta radicale e tutt’ora l’attività più strettamente classica e quella contemporanea convivono. È stato proprio il Conservatorio che mi ha portato ad incontrare molti compositori contemporanei. Ho avuto allora forse più curiosità di altri chitarristi nello sperimentare le nuove musiche scritte da altri studenti come me. Questo mi ha sempre coinvolto moltissimo, ma soprattutto ha dato un contribuito importante la scoperta di come lo strumento che avevo in mano potesse suonare diversamente dal solito».
Quali sono stati i primi repertori contemporanei a cui ti sei accostata?
«Mi ricordo un pezzo di Bussotti che ero dovevo suonare con altri due chitarristi. L’ho dovuto studiare bene, dal momento che non conoscevo il linguaggio del suo autore. Però ho cercato di trovare nella mia esperienza classica quel suono e quella varietà di timbri adatti per farlo funzionare. Ho scoperto allora che poteva essere molto divertente suonare una partitura così libera, così elestica come quella di Bussotti e poter inventare su di essa. In seguito ho studiato tantissimi altri compositori come Petrassi e Carter».
Pensi che la scrittura moderna lasci più spazio all’interprete conteporaneo rispetto a quella tradizionale?
«Sì, in realtà conoscendo sempre meglio le partiture della nuova musica ci si accorge che c’è sempre molta definizione, a volte anche esasperata nella richiesta di dinamiche. Basti pensare a certe partiture di Boulez in cui tutto viene serializzato, perfino le dinamiche, e in cui ogni singola nota viene indicato come suonarla e con quale intensità. Per certi versi molte scritture moderne sono più definite di quelle del passato, ma c’è talmente varietà che non si può affermarlo con certezza, basti pensare alle partiture aleatorie. Nutro un profondo affetto, per non parlare di vera passione, nel guardare la partitura di un compositore. Mi piace cercare di capire cosa sta cercando di dire attraverso la sua scrittura, a volte piena di grafismi, altre volte esageratamente vuota. Mi appassiona la possibilità di lavorare direttamente con i compositori, di conoscere il loro mondo, di leggere i loro scritti. La scrittura musicale allora diventa una parte di questo mondo».
Hai fatto cenno a compositori di una generazione che appartiene più al secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Cosa mi dici dell’attualità chitarristica?
«Quello attuale è una sorta di cantiere. Molti compositori stanno continuando a scrivere e io, quando posso, li invito a farlo. In Italia c’è una situazione molto felice: ricordo compositori come Maurizio Pisati o Gabriele Manca, che ha scritto molto per chitarra. Per quanto riguarda l’estero voglio ricordare il tedesco Claus-Steffen Manhkopf, con cui sto lavorando a un suo pezzo per due chitarre che verrà eseguito in luglio a Darmstdt. Ho appena ricevuto un pezzo per due chitarre elettriche di un altro compositore tedesco Moritz Eggert, si tratta di un lavoro importante di 25 minuti, molto complesso. Sono anche in contatto con compositori giapponesi. Devo dire che c’è solo l’imbarazzo della scelta e non mancano le possibilità di suonare nuove musiche. Oltretutto i compositori sono in continua evoluzione. Quello che hanno scritto dieci anni fa è diverso da quello che scrivono oggi. Si tratta davvero di un lavoro in tempo reale».
La chitarra è sempre stata uno strumento a sé stante nelle storia della musica colta occidentale. Mentre ha goduto di un ruolo primario in ambiti diversi, basti pensare a molte musiche popolari, al jazz o al rock. Pensi che come strumento sia più portato alle commistioni di molti altri?
«Sicuramente. Dal momento che la chitarra è stato uno strumento praticato in tutti i generi musicali, accanto a quello classico, si è prodotto, nella prima metà del secolo scorso, un forte interesse nel suoi confronti da parte di diversi compositori classici. Schönberg, Berg e Webern l’hanno inserita nei loro lavori proprio come strumento popolare che caratterizzava le loro opere per la sua estraneità al suono classico, come nella Serenata di Schönberg o nel Wozzeck di Berg, in cui fanno la loro apparizione delle chitarrine da Bierhaus popolare. La stessa cosa è successa negli anni Sessanta. Quando i compositori hanno inserito la chitarra classica o elettrica, l’hanno fatto con l’idea di usare uno strumento di rottura rispetto al mondo della musica classica: una protesta contro il suono tradizionale. È stata quindi una fortuna che la chitarra avesse un’altra vita. Adesso negli ensamble contemporanei è diventato uno strumento importante quanto gli altri. Non patisce più questa sorta di isolamento, che invece esiste ad esempio nel rapporto con il repertorio ottocentesco».
Usi quindi anche la chitarra elettrica?
«Sì, la suono da più di dieci anni e anche questo è accaduto grazie ad alcuni compositori. Ho sentito da parte loro un interesse per questo strumento e al tempo stesso ho notato la difficoltà nell’entrare in contatto con chitarristi elettrici che fossero in grado di leggere le loro partiture. Così ho studiato, letto, provato, ascoltato molto e mi sono accorta che in certi casi i compositori la usavano come tramite per avvicinarsi a un linguaggio più simile al rock, altre volte partivano da presupposti di tipo elettronici o elettroacustici. Quindi l’esperienza compositiva si applicava anche alla chitarra elettrica, prescindendo da quella che è stata la sua storia nel rock o nel jazz. A volte è fin irriconoscibile come chitarra elettrica, essendo talmente trasformata attraverso anche tecniche specifiche, che modificano a tal punto il suono e l’attacco da non rendere più riconoscibile il suono più noto di una chitarra elettrica. Rimane comunque uno strumento in cui l’intervento delle mani è sempre molto fisico, a differenza ad esempio di una tastiera».
Naturalmente la tecnica si evolve a seconda dei mezzi utilizzati. Ad esempio tu usi anche il plettro?
«Raramente. Quando mi viene richiesto. Io non ho una tecnica particolarmente virtuosistica quando uso il plettro, dato che sono più abituata ad usare le dita, ma mi rendo conto che in certe situazioni il plettro dona una qualità d’attacco diversa, che a volte funziona meglio. Normalmente questo avviene nei pezzi dove si è più vicini alla musica rock o ad altri generi, perché il compositore si immagina quel suono e quel tipo di articolazione. C’è un compositore francese che si chiama Hugues Dufourt che ha scritto moltissimo per chitarra elettrica, solista o accompagnato dalle percussioni, in orchestra e in ensemble. Appartiene alla corrente degli spettrali, ovvero quei compositori che hanno lavorato sullo spettro sonoro, analizzando gli armonici. Crea delle fasce di suono estremamente elaborate, dal punto di vista elettronico, usando effetti come il wah-wah per indagare gli armonici e creando delle onde che molto lentamente attraversano tutto lo spettro del suono. Ho realizzato molti progetti con la chitarra elettrica assieme a Giorgio Magnanensi. La sua musica, molto vicina a quella di Frank Zappa, prende molto da quel tipo di fraseggio, anche se lui, che si è formato con Donatoni, è riuscito a fondere due strade molto diverse tra loro».
Un esecutore classico come te può suonare musica come quella di Zappa soltanto attraverso arrangiamenti, pratica comune tra molti intepreti moderni devoti alla pratica del crossover. Tu come ti comporti rispetto a generi “altri”?
«Io non suono né Zappa, né Hendrix. L’ho fatto per studio, ma non in concerto, perché è un ambito in cui non mi sento a casa mia. D’altra parte suono spesso da sola o in ensemble che comunque non hanno relazioni con quel tipo di musica. Preferisco allora gli accostamenti, come è successo quando ho suonato pochi mesi fa in una serata con Ralph Towner. Mi piacciono comunque quei contesti in cui ci sono musicisti di altra provenienza, come è avvenuto con David Moss».
Moss, che ha partecipato recentemente a Cronaca del luogo di Berio, è un noto improvvisatore. Certe tue performance si aprono anche all’improvvisazione?
«Sì, anche. Assieme a Magnanensi, Moss e Simonini abbiamo fatto un concerto nel quale io improvvisavo su alcuni materiali di Magnanensi che interagivano con le improvvisazioni degli altri due. Ma devo confessare che io rimango sempre nel mio ambito, legata a quello che hanno scritto i compositori».
Pensi che chi ascolta un tipo di musica come quella che esegui tu, possa arrivare a te attraverso altri canali, che non quelli della musica contemporanea tout court?
«Si mischia un po’. Molto dipende anche dalle stagioni. Ad esempio il pubblico che non appartiene alla musica contemporanea non sa che esistono dei pezzi per chitarra elettrica, appartenenti al repertorio contemporaneo, che potrebbero essere anche di loro interesse. Michele Tadini, con cui abbiamo fatto l’anno scorso un video che comprendeva anche brani di Steve Reich e Pisati, ha scritto un pezzo tutto lavorato sul tapping, molto ritmico e molto vicino ad altri linguaggi. L’ideale è di poter suonare in situazioni in cui l’altro pubblico della chitarra possa scoprire che esistono anche queste musiche, come è successo in stagioni come quelle di “To Sting” in cui il pubblico di Ralph Towner ha ascoltato la chitarra classica della nuova musica in una veste che forse non conosceva, scoprendo magari qualcosa di interessante».
Di quel concerto ricordo Ko-Tha di Giacinto Scelsi, in cui tenevi due chitarre distese che battevi percussivamente, una procedura non molto ortodossa…
«Si tratta di un pezzo scritto molto bene e anche illuminato, poiché ha osservato la chitarra da un punto di vista assolutamente estraneo alla tradizione. A Scelsi interessava la chitarra percussiva, per merito dei suoi legami con la cultura indiana e a certe suggestioni del sitar. Ed è venuto fuori un pezzo in cui la chitarra diventa completamente un altro strumento, qualcosa di inaspettato».
da: “Amadeus”, n.152, 2002. © altremusiche.it / Michele Coralli
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