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Quest’anno Elliott Carter – i cui natali risalgono al lontano 11 dicembre 1908 – compie cento anni. Inutile sottolineare quale straordinario traguardo questo sia. Se poi ci si sofferma sul dato culturale, una vertigine può coglierci nel considerare che, quando nasce l’americano, Picasso ha da poco terminato il suo Les Demoiselles d’Avignon, Debussy si appresta a chiudere il suo Children’s Corner e mancano ancora vent’anni alla nascita di Stockhausen. Insomma il Novecento è ancora tutto da fare. Eppure anche nelle opere da camera più anteriori, che però si riferiscono a un’età matura del compositore, essendo scritte tra il ‘45 e il ’50, risiede una modernità paragonabile a molte opere neoclassiche di Paul Hindemith o di Charles Ives. Siamo lontani ancora da complessità atonali, ma ci si sta muovendo con decisione in quella direzione partendo dai toni rapsodici di Pastoral for Clarinet and Piano o dalla gioiosità di Woodwind Quintet. La vivacità quasi jazzistica promana da composizioni in cui si evidenziano sostanziose contiguità con il modello stravinskiano. Mentre la Sonata for Cello and Piano sembra provenire da più lontano, da quel romanticismo cioè che l’America ha sempre invidiato all’Europa. Chiude il trittico Eight Etudes and a Fantasy for Woodwind Quartet che, rispetto al precedente quintetto, inizia a smontare l’architrave armonico tradizionale a favore di nuove impalcature moderniste.
da: “Amadeus”, n221, aprile 2008 © Paragon / Michele Coralli
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