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Quanto detto precedentemente attorno a “The Eleventh Hour” del 2005 può essere qui ripreso pari pari. Nell’ensemble orchestral-elettronico di Evan Parker ci sono personaggi che ormai fanno parte della cordata storica dell’Ensemble (tanto per dirne alcuni: gli italiani Vacchi e Prati, o il violinista Wachsmann, il percussionista Lytton) e altri che ne entrano ed escono a seconda dei rispettivi impegni, come Barry Guy.
Ma poco importa l’organico in fondo, visto che l’amalgama si cuce soprattutto attorno al processo sul segnale emesso dalla linea orchestrale acustica, poi lavorato e mescolato assieme ai suoni digitali della seconda linea (quella “informatizzata”). La dicotomia in effetti viene vissuta in un senso sempre più simbiotico da parte di chi è abituato a cercar suoni sullo strumento o a costruirli sulla base della traccia della sua manipolazione elettronica (una totale corrispondenza tra mondo dell’improvvisazione post-radicale e ambiti colti come spettralisti, post-spettralisti, o autori come Helmut Lachenmann).
Qui oltre al sax soprano di Parker si cimentano alcuni strumentisti impegnati sui suoni inconsueti di sho e shakuhachi, e di parti meno esotiche come tromba, clarinetto, pianoforte, contrabbasso. Al solito la varietà di colori in campo è assolutamente vasta e significativamente ramificata tra diverse famiglie strumentali (cioè da considerare alla luce di analogie elementari come archi, fiati e percussioni).
Ciò che sembra distanziarsi in un certo modo dal precedente progetto di Electro-Acoustic Ensemble è la minor irruenza nella ricerca della saturazione del suono a vantaggio della definizione di una trama ricca di nuances e chiaroscuri, segno di uno sviluppo che si orienta allo specifico e più infinitesimale dettaglio piuttosto che al “solo” disegno complessivo.
Forse quello che difetta in questi progetti, musicalmente validissimi, è la negazione di qualsiasi forma di referenzialità, per inventarsi nuove sinestesie…
2009 © altremusiche.it
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