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Seppure certe storiografie finiscano spesso per apparire delle vere e proprie forzature ree di determinare rigidi e oziosi steccati, può invece essere utile ricordare Ferruccio Busoni come uno dei grandi sperimentatori del Novecento, al pari di altri grandi come Picasso, Joyce o Stravinskij.
Come ha detto Moravia: “Il secolo comincia esattamente come doveva poi proseguire e come tutt’ora prosegue, con un’arte rifatta sull’arte, un’arte non più in presa diretta sulla realtà ma mediata dall’estetismo, un’arte convogliata dalla coscienza critica fuori dalle tempeste della creatività verso le lagune immobili della maniera e dunque, più tardi, del consumo. […] Per mandare ad effetto una simile operazione bisognava avere il coraggio, attraverso uno sperimentalismo eretto a sistema, di negare validità di ispirazione al già vissuto e attribuirla al già detto. In altri termini sostituire al mondo il museo.” (A. Moravia, “Esplosione della maniera”).
Se Busoni può essere a buon diritto inserito nel novero degli sperimentatori, il cui metodo di ricerca è eretto a sistema, questo lo si deve proprio alla sua musica e al suo farsi “maniera” attraverso un canale ideale che convoglia le residue energie tardo-ottocentesche e genera su di esse un’infinita serie di turbolenze che fanno traballare il vecchio sistema. Ma non si tratta solo della fuoriuscita dal sistema tonale o il sempre più evitato affermarsi di un centro tonale a costituire il nucleo della modernità di Busoni. Forse è proprio quel concetto di “maniera” affermato da Moravia, quel riflettere “l’arte sull’arte”, quel “sostituire al mondo il museo” a proiettare il compositore toscano in pieno ‘900.
A rischio di apparire fuorvianti ci piacerebbe suggerire l’immagine di un Busoni post-moderno ante litteram in un’equazione a-storica in cui il modernismo viene rappresentato dal tardo-romanticismo (superato) e il “nuovo” reso tale attraverso la ricontestualizzazione del vecchio (“il museo”), nel nome di un’estetica dell’arte costruita sull’arte. E cosa c’è di meglio se non una costruzione sinfonica in cui vengano negati o affermati residui tonali e forme consolidate in un gioco di pura estetica che coinvolge “il già detto”, sia questo scoria della civiltà musicale euro-colta o tradizione “esotizzante” come quella dei pellerossa americani?
La Indianische Fantasie op. 44 (1913-14) e Gesang von Reigen der Geister op.47 (1915) non possono allora essere osservati con la stessa lente con cui si guardano certi arcaicismi di Meredith Monk, che paga un debito anch’essa nei confronti di certe visioni pentagonali degli indiani d’America? La scala su cinque note diventa nei pezzi indiani di Busoni l’elemento ricostruttivo che serve ad affermare e negare al tempo stesso, per generare un metodo che è sperimentazione. Mesto come un’elegia, i cui caratteri sono inseguiti in una splendida orchestrazione, il Gesang (Canzone della danza dello Spirito) è in stretta correlazione con la Pawnee Song ispirata dal massacro di Wounded Knee del 1890 e ne contempla la gelida desolazione in lunghi e suggestivi piani sequenza.
La Indianische Fantasie per pianoforte e orchestra è una pagina dalla decisiva impressione rapsodica, capace di non indugiare sull’elemento esotico, ma di determinare forze propulsive. Infine Lustspiel-Ouverture op.38 (1897-1904) e Die Brautwahl suite op. 45 (1912) sono composizioni dal piglio decisamente esuberante, non estraneo a quella fiamma che arde le sale da concerto messe alla prova dalle arrembanti avanguardie dei primi anni del ‘900. “Il secolo comincia esattamente come doveva poi proseguire e come tutt’ora prosegue.” Siamo oggi ancora nel ‘900 o viviamo in un secolo che sta faticosamente tagliando i ponti con il suo pesante passato?
2006 © altremusiche.it
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