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Dal 1990 fa parte del Quartetto Vocale di Giovanna Marini, ha lavorato nel Teatro con Elio De Capitani e Giulio Bosetti, collaborato con Nicola Piovani per Canti di scena, ma la sua voce fa parte anche della banda sonora di Kaos dei fratelli Taviani. Francesca Breschi, cantante dalle grandi doti strumentali, si presenta con un disco e un ampio bagaglio tecnico e professionale. Un buon punto di partenza per fare due chiacchiere con lei.
Il tuo approccio musicale è marcato da un forte eclettismo che ti consente frequentazioni davvero speciali: da Stratos a Monteverdi, da Giovanna Marina al canto lirico tradizionale, come hai dimostrato nel tuo recente “Canti molesti (Nota/Materiali Sonori). Cosa pensi dell’ibridazione come espressione musicale?
«Credo che l’ibridazione sia sempre esistita. È proprio dell’uomo confrontarsi con gli altri esseri umani e l’assorbire a vicenda linguaggi e idiomi. Solo penso che si debba fare attenzione a non tradire i codici di linguaggio. Cioè che si debba fare uno sforzo per conoscerli e non prendere le cose un tanto al chilo come questa odierna “cultura supermercato” ci porta a fare.
Penso che un atteggiamento giusto sia quello di arrivare a definire, attraverso la curiosità, l’ascolto e lo studio profondo, una propria e un’altrui identità. A riconoscere e a non accettare le “colonizzazioni” culturali che sono evidentemente ben diverse dalle sane “ibridazioni.
Se guardo alla mia esperienza vedo un’enormità di stimoli diversi entrati a far parte in modo automatico e “omeopatico” del mio gusto e del mio linguaggio: dallo studio al pianoforte su Beethoven, Mozart, Bach, all’ascolto del clavicembalo di Buxtehude e De Sweelink, dai Led Zeppelin ai Genesis e i Pink Floyd, all’assiduità dei Maggi Musicali Fiorentini dove si scoprivano Penderecki e il grande melodramma italiano, mentre cantavo pizziche sotto gli Uffizi con i giovanissimi universitari salentini e Controradio mandava in onda la West Coast durante le occupazioni delle facoltà e al cinema andavamo a guardare Woodstock, Tommy, Monterey Pop o Concert for Bangladesh. Poi a Madrid le abbuffate di flamenco, afro beat e musica di amici brasiliani con una brevissima incursione nel pop iraniano, mentre componevo su un D50 (nuovissimo per l’epoca) musica per video-arte spagnola e rimettevo le mani sul piano con Corea e Jarrett, ascoltando Coltrane e Pastorius. Fino all’incontro con Giovanna Marini e le sue polifonie spericolate alla Escher e la profondità del vero studio sulla musica di tradizione orale italiana.
Insomma, questa è forse la mia maniera di essere nel mondo: incontrare gli altri nel suono e comunicare con il mondo esterno attraverso il canto. Ultimamente mi piace frequentare un’idea ‘rinascimentale’, forse totale, dell’arte dove poco alla volta si abbattono le barriere tra le diverse espressioni artistiche fino ad includere le scienze».
Contrariamente a quanto accade in molte recenti produzioni, in cui si sposa una certa retorica della semplicità e del raccoglimento intimista, in questo tuo lavoro avete utilizzato una vasta gamma di suoni, quasi da disco pop, tanto per intenderci. Come è nata questa scelta?
«Il suono non è una cosa immaginaria: il suono è una massa d’aria che si sposta e io l’ho inteso così in questo lavoro. Ho cercato l’energia dei miei primi ascolti e ho cercato di restituirlo. In realtà tutto il materiale che comprende Canti molesti non è stato creato pensando a un prodotto puramente discografico ma è materia integrante di uno spettacolo dove coesistono due piani sonori: uno è il racconto del Combattimento di Tancredi e Clorinda attraverso le ottave del canto XII della Gerusalemme Liberata del Tasso (che tratto partendo dall’ottava toscana passando per il cunto siciliano e approdando al racconto musicale monteverdiano) e l’altro è quello più ‘elettrico ed elettronico’ di molti di questi brani. Le ottave parlano di un rapporto intimo di conflitto interiore, mentre i brani del CD creano un legame con l’ambiente esterno e le sue problematiche.
Questi canti ci parlano di qualcosa di difficile, duro, alle volte insostenibile. Per conto mio sarei anche andata oltre, avrei volentieri graffiato e strappato di più, ma questa è una considerazione che ho fatto a posteriori e quindi, se avrò la possibilità di eseguire dal vivo questi pezzi, forse porteremo un po’ di modifiche in questo senso.
Intanto sto scrivendo dei brani alcuni dei quali avranno senz’altro bisogno di semplicità e raccoglimento. Ma è molto probabile che il mio senso di semplicità e raccoglimento sia molto diverso da quello che comunemente e ‘discograficamente’ si intende… non so, lavorando con Giovanna Marini ho capito che ci si avvicina molto di più all’essenza di quello che si vuole comunicare, quanto più ci si libera da schemi prestabiliti e si segue il puro significato dei testi, il suono delle parole, la voce, il suono degli strumenti.
La semplicità è molto difficile. Bisogna lavorarci sopra tanto».
Alcuni brani come Cometa rossa degli Area però li ho trovati eccessivamente edulcorati…
«Sì per alcune cose sono d’accordo con te. In Cometa Rossa mi interessava l’impatto della voce, il suono della parola e il significato del testo. Tutto questo insieme su quel ‘modo’ (musicale). Ho tenuto il nucleo del brano, che peraltro anche Stratos eseguiva, quando era da solo, in questa forma».
Il tuo nome è noto ai più e al sottoscritto per la tua militanza all’interno del Quartetto Vocale di Giovanna Marini, personalmente una delle esperienze più importanti nell’ambito della musica vocale degli ultimi anni. Come sei entrata a farne parte?
«Giovanna è una persona molto pratica: aveva bisogno di una persona nuova perché la figlia stava per dedicarsi definitivamente alla lirica e un suo amico, che mi aveva sentito cantare, mi aveva consigliato a lei. Così mi ha chiamata, ci siamo viste una volta a casa sua e mentre mi canticchiava le varie parti che avei dovuto poi cantare io, mi faceva fare alcune voci qua e là. Alla fine di questa oretta ho detto: “Poi comunque, signora, mi dovrà sentire per bene per decidere”. E lei ha risposto: “No, no, ho già sentito oggi quello che dovevo sentire.” Dopo un paio di mesi di studio sono andata direttamente in scena. E questo devo dire è anche il criterio che ormai utilizzo io quando devo scegliere attori che cantino la musica di Giovanna in teatro: quello che è importante sono l’orecchio, la musicalità e l’attitudine a una certa apertura mentale. Questi sono gli elementi base sui quali si può far ben poggiare una costruzione musicale elaborata».
Una cosa che mi ha sempre colpito è stata l’indifferenza con cui per anni critica e istituzioni italiane hanno accolto il Quartetto, salvo poi rispolverare la Marini per quel discutibile progetto con De Gregori. Come vedi il modo di considerare la cultura musicale nel nostro paese (diciamo contingenze politiche attuali a parte…)?
«Disastro totale? Si può dire? E diciamolo. Gli italiani campano ormai sugli allori di un glorioso passato musicale del quale si vantano, ma di cui non sanno un bel niente.
Ormai è passato il concetto che basti ascoltare un qualsiasi cantante lirico che intoni O sole mio e ci si sente già abbondantemente ‘acculturati’. Chi voleva aprirsi il cervello e far entrare aria pulita si è buttato ad imparare ossessivamente scale jazz o infiniti raga indiani, spesso senza sapere che esiste un immenso oceano di note proprio qui, nel nostro DNA. Quello che in maggior modo mi rende furibonda e preoccupata è la totale mancanza di senso critico del pubblico che fa l’equazione televisione uguale bello, interessante e colto. E questo purtroppo penso sia il frutto di una sottilissima (ma poi non più tanto) e terribile strategia. Noi col Quartetto possiamo solo continuare imperterrite il porta a porta della nostra, come la chiami tu, militanza culturale».
Tra le composizioni della Marini per il Quartetto quali reputi le più riuscite?
«Ah, questa è una bella domanda alla quale però non so rispondere. Giovanna Marini è uno dei genî della musica contemporanea europea, anche se le accademie non lo vogliono e non hanno il coraggio di riconoscerlo. Ma non solo. È come stare a bottega da Michelangelo. E noi siamo i suoi discepoli e strumenti quindi il risultato spesso dipende da quanto noi siamo cresciute e come sappiamo interpretare il suo materiale eclettico, personalissimo e sempre nuovo.
Inoltre Giovanna è una persona anche molto immersa nella realtà dalla quale attinge a piene mani, quindi tutto ciò fa sì che la sua non sia una scrittura statica ma è in continua evoluzione. Oltretutto spesso ci capita di capire veramente un brano dopo moltissimo tempo che lo eseguiamo, quindi anche la nostra esecuzione è una continua messa a fuoco ed ogni volta è veramente un pezzo unico diverso dall’altro».
Il teatro è stato un ambito attorno cui la tua attività è sempre ruotata. Quali prospettive “sperimentali” offre il teatro al cantante contemporaneo?
«Dolentissima nota anche questa. Ormai in Italia siamo completamente affidati ad umori e scelte arbitrarie di singoli che agiscono spesso per il proprio ego e tornaconto personale, senza pensare che il Teatro è un bene comune e necessario e dove sempre più spesso lavora chi riesce a far vedere il suo viso in televisione, grande contraddizione. Si trovano però qua e là persone illuminate.
Ti parlo della mia ultimissima esperienza: è successo a Firenze per Fabbrica Europa, dove ho presentato questo mio progetto (Canti Molesti/Combat – Il Combattimento di Tancredi e Clorinda) voluto fortemente da Lorenzo Pallini, responsabile musicale del festival, anche a dispetto di tagli improvvisi al budget iniziale. Altrove il mio progetto è stato a priori bocciato (che significa senza ascolto, visione, incontri e trattativa), perché non sono straniera. Incredibile ma vero, oppure orrenda scusa. Credo che di ‘piccoli omicidi’ di questo genere, di negazione di esistenza artistica, ce ne sia purtroppo una lunghissima lista. E quindi, dato che non voglio diventare una cantante di musical, sto cercando di emigrare.
Senza parlare della difficoltà di inserimento nei programmi teatrali del Quartetto: cos’è? musica? teatro? Boh. Purtroppo si deve dare atto alla Francia e ad altri paesi nord europei dell’enorme apertura dei programmatori delle sale (bellissime, quelle francesi) e della preparazione del pubblico verso certe forme a prima vista non immediatamente definibili e incasellabili. Ma si deve proprio sempre definire tutto? Sono contenta di stare nel poco rassicurante ‘indefinibile’. Un gesto per tutti: l’Italia mi piace ma pensa che all’estero, alla fine degli spettacoli, vengono perfino a ringraziarci!».
ottobre 2004 © altremusiche.it / Michele Coralli
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