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Compositore elettronico, tecnico e regista del suono con un recente passato accanto a Liciano Berio nell’allestimento, tra le diverse altre, di opere come Outis (1999), quindi esperto di tecnologie analogiche e digitali, nonché autore di un breve saggio scritto a quattro mani assieme ad Andrea Cremaschi (Rumore bianco, Zanichelli 2008), Francesco Giomi, direttore del centro di ricerca musicale Tempo Reale, fondato da Berio a Firenze nel 1987, rappresenta forse l’ideale trait d’union tra la prima fase storica di sperimentazione musicale e l’attuale nuova generazione. Da una parte quindi il mondo analogico fatto di nastri magnetici e oscillatori, dall’altra quello digitale con laptop e nuove interfaccia uomo-macchina.
Sei un compositore molto, o quasi esclusivamente, orientato all’uso dell’elettronica. A livello di tendenza generale negli ultimi vent’anni si è assistito in ambito colto a un progressivo distacco dalla tecnologia (a parte nobilissime eccezioni) e questo è successo soprattutto per riaffermare, spesso in un senso conservatore, un orgoglio strumentale acustico. L’arma tecnologica è stata impugnata con più determinazione da musicisti di altre aree, come quella del cosiddetto glitch, tanto per fare un esempio. Qual è il tuo punto di vista di compositore e di direttore di Tempo Reale nei confronti delle nuove frontiere dell’arte? L’area colta si è stancata della tecnologia o è ancora necessario recuperare da parte di tutti un repertorio – quello “contemporaneo” novecentesco – per renderlo finalmente “classico”?
«Come persona, come compositore, ma anche come responsabile di Tempo Reale sono sempre restio ai dogmi. Ho una visione aperta e curiosa della musica, delle nuove musiche e di tutte le esperienze sonore. Sono sempre favorevole a varie possibilità espressive, come quella di integrare strumenti acustici con strumenti tecnologici. Entrambe le cose possono convivere insieme. Io stesso mi sono dedicato ad alcune opere negli ultimi anni che prevedono l’iterazione tra strumenti acustici e live electronics o materiali fissati su supporto. Questo credo che sia un atteggiamento che ha caratterizzato e caratterizza buona parte delle esperienze più interessanti della Nuova Musica.
Quindi non vedo di buon occhio il contrasto tra le esperienze sempre più acustiche di quella che possiamo definire musica contemporanea da un lato o, come dice Pollini, musica d’arte e la laptop music o la cosiddetta nuova scena elettronica più di consumo dall’altro. Ci sono esperienze interessanti in entrambi i settori. Certo è che il repertorio della musica contemporanea ha lasciato un po’ per strada l’utilizzo dell’elettronica, che spesso è stata concepita negli anni dai compositori come una sorta di maquillage che bisognava avere per essere di moda. Come spesso succede, quando le mode passano rimangono le cose serie e importanti, mentre quelle effimere scompaiono. Anzi, le cose importanti fatte dalle avanguardie vengono poi digerite e ri-acquisite, re-interpretate da chi fa musica nel nostro tempo. E questo è il caso anche della scena più commerciale, che si è riappropriata di una serie di percorsi sonori e tecnologici che erano tipici delle avanguardie di 30 o 40 anni fa. Questo è un processo del tutto normale.
Ora è vero che la musica d’arte o musica contemporanea ha in qualche modo quasi abbandonato l’idea dell’elettronica. Credo che questo sia avvenuto per vari motivi, anche a causa delle complicazioni che hanno luogo quando ci sono strumenti tecnologici. Ma il problema è un po’ più generale: questa musica si è inviluppata su se stessa e non è stata capace di raggiungere e di formare un proprio pubblico, di renderlo più consapevole, ma anche di uscire da tutta una serie di meccanismi tipici di una tradizione e di un circuito che evidentemente la scarsezza di risorse degli ultimi anni non ha permesso di alimentare ulteriormente. D’altro canto è interessante vedere anche il fermento che le tecnologie hanno causato. L’accessibilità del fare musica, del comporre per un numero elevatissimo di persone lo reputo un effetto importantissimo. C’è molta musica – qualcuno dice anche troppa – e c’è anche molta espressività, che oggi viene fuori attraverso le tecnologie musicali. Di conseguenza è stata messa in piedi una scena con aspetti interessanti che si muove quasi esclusivamente sul territorio delle tecnologie. Però, ripeto, la qualità delle cose non dipende tanto dall’usare o meno strumenti acustici o tecnologici, ma dal fatto che ci sia un pensiero musicale strutturato. E’ importante che le persone abbiano gli strumenti per scegliere e giudicare anche grazie alla conoscenza del passato, ma anche gli artisti devono essere consapevoli del background storico delle tecnologie».
Quali sono, secondo te, i compositori che stanno percorrendo in maniera più felice questo percorso tecnologico?
«Dalle avanguardie elettroniche storiche degli anni ’50 e ’60 sono scaturiti compositori come Stockhausen, Nono e Berio, che hanno continuato a scrivere opere con l’elettronica fino all’ultimi periodi della loro vita. E l’hanno fatto in maniera molto interessante, pur con tecnologie e approcci sostanzialmente differenti. Luciano Berio, nei suoi lavori con l’elettronica ha utilizzato strumenti molto semplici, sebbene questo utilizzo sia avvenuto secondo una modalità assolutamente strutturata attraverso la scrittura, quindi in una maniera molto profonda, cioè conoscendo questi strumenti concettualmente molto a fondo e lavorando con delle persone che hanno reso possibile questo utilizzo. Si trattava di algoritmi di harmonizer (trasposizione), di delay (linee di ritardo) e di freeze (campionamento dal vivo di frammenti) e, ovviamente, di spazializzazione del suono strumentale dal vivo. Ancorché semplici questi strumenti sono estremamente integrati all’interno di un pensiero musicale. E la stessa cosa la si può dire a proposito di Nono e di Stockhausen. Pongo l’accento su questo perché è molto importante.
Ci sono anche esperienze dell’ultima onda molto interessanti come il glitch che nasce a metà degli anni ’90. Ci sono casi anche tra gli italiani come Elio e Maurizio Martusciello: esperienze che comunque riprendono sperimentazioni degli anni ’50 e ’60, epoca in cui altri compositori utilizzavano ad esempio il rumore bianco o il glitch, cioè materiali ripresi dal cestino (come John Cage). E’ interessante questa rimacinazione o ridigenstione dell’avanguardia che è avvenuta dopo molti anni. Di questo processo io credo che si debba essere consapevoli. Ci sono molti che lo fanno in maniera intelligente come Amon Tobin o per certe cose anche i Matmos. Ce ne sono diversi di artisti o gruppi interessanti, certo non bisogna avere per forza la sindrome del nuovo. Essendo anche io un musicista di ricerca, sono personalmente interessato a chi come me fa delle esperienze di ricerca».
Vorrei che mi dicessi quanto, secondo te, in compositori delle prima onda come Berio o Maderna, era legato a un aspetto empirico del suono artificiale e quanto invece ai più intimi aspetti generativi.
«Lo sporcarsi le mani, l’esperire sul suono è sempre stato uno degli aspetti per me più importanti e in questo senso tutti gli autori del recente passato lo hanno fatto. Anche oggi è così, perché la musica è un fatto espressivo che ha a che vedere con aspetti percettivi e con l’emotività. In quanto tale il pensiero musicale non può essere totalmente astratto. Le esperienze in cui questo è successo sono quelle un po’ più lontane da un mio modo di intendere la musica. In questo senso quindi la prassi, cioè il lavorare sul suono nell’alveo di un processo, vuol dire profondità che può essere dettata da anni di esperienza sul campo. Come piaceva dire a un compositore che ho frequentato, Piero Grossi: da anni di “dita nella marmellata”.
Stiamo viaggiando lungo un percorso storico anche in base al fatto che hai appena scritto un libro che si intitola Rumore bianco che traccia per sommi capi la storia dell’elettronica in musica, oltre che descrivere la realtà digitale dell’oggi. Trovo affascinante l’aspetto pionieristico della musica elettronica storica e credo che molto fascino appartenga anche a certi timbri analogici. Tra mondo analogico e mondo digitale si fanno spesso confronti – e anche tu lo fai nel tuo saggio – sul piano dell’efficienza, della funzionalità o della qualità del suono. Mai sul piano della poetica o della forza espressiva. Qual è la tua posizione rispetto a questa prospettiva?
«Sono d’accordo con quello che dici, ma la vedo sotto un aspetto leggermente diverso. Certamente c’è una poetica dell’analogico, ma io credo poco nella poetica tecnologica.Come ho detto prima la tecnologia deve essere un mezzo al servizio di qualcosa d’altro. Credo però che la nostra espressività nella musica, così come in tutte le discipline, sia legata al mondo analogico. I nostri gesti, i nostri movimenti, le nostre azioni per produrre musica, per ascoltarla o per fare altre attività, sono delle azioni che possono essere rappresentate per analogia e non per numeri, basti pensare a tutta la storia della prassi strumentale. Ma più semplicemente, se io devo alzare o abbassare il volume dello stereo della macchina, faccio in modo molto più naturale un movimento di rotazione piuttosto che pigiare più volte un pulsate. Questo, secondo me, sancisce la supremazia dell’atteggiamento e dell’interfaccia analogici. Il fatto che io abbia un suono prodotto digitalmente è una cosa che offre oggi una velocità e una qualità superiori. Sul suono e sulla poetica analogica e digitale il discorso è diverso, ma si tratta di mondi diversi che producono risultati diversi e tutti altrettanti interessanti.
Il glitch e il noise, diffusi come sono stati diffusi, non ci sarebbero mai stati senza gli editor di computer. Quindi, in questo caso, il digitale ha innescato una serie di processi non indifferenti che possiamo definire anche sociali. D’altro canto ci sono strumenti analogici ancora molto belli, come gli amplificatori valvolari per chitarra che riproducono suoni non altrimenti riproducibili attraverso altri strumenti. Io stesso per un recente lavoro che si chiama “Progetto Sdeng” uso un sintetizzatore analogico dei primi anni ’80, che ha la caratteristica di non avere memorie. Questo cosa vuole dire? Che qualsiasi cosa io voglia fare, debbo ripartire da quello che ho lasciato precedentemente, magari un mese prima durante un altro concerto. Non ho quindi la possibilità di fare sempre le stesse cose, ma al contrario avviene sempre una ri-esplorazione continua attraverso manopole, cursori e tasti. Questo va molto verso un’attitudine di prassi strumentale e di manipolazione di oggetti che a me piace moltissimo».
Di che sintetizzatore si tratta?
«Ho un vecchio Korg Mono/Poly che uso quasi esclusivamente in modalità monofoniche. Si tratta del primo sintetizzatore dopo la famosa serie degli MS-20, senza MIDI, ma con 4 oscillatori. E’ abbastanza potente, ma come dicevo senza memorie».
La sperimentazione strumentale che compositori come Berio hanno fatto – e penso soprattutto alle celebri Sequenze – è stata soprattutto indirizzata agli strumenti acustici. In ambito colto non è stata fatta la stessa cosa sugli strumenti elettronici che già dagli anni ’60 erano disponibili.
«Sono d’accordissimo. Berio per esempio non era interessato a questo tipo di cose. Però ci sono stati tanti altri compositori che lo sono stati. Anzi, le varie tecniche di sintesi del suono sono state, dagli anni ’70 a oggi, uno dei grandi motori della ricerca dell’informatica musicale. Talmente tante sono state le tecniche inventate, che è difficile elencarle tutte. Alcune famose e importanti si sono riverberate nei prodotti commerciali e rimangono tecniche fondamentali. Però questo della sintesi del suono è un settore davvero molto studiato».
Sì, io mi riferivo però alla prassi compositiva legata allo studio pragmatico degli strumenti elettronici analogici.
«Sai Berio era uno che concepiva l’elettronica come estensione degli strumenti, come lente di ingrandimento o come elemento capace di estenderli o ampliarli. Quindi preferiva partire dalla radice strumentale. Anche nelle mie esperienze compositive più tradizionali, che possono essere definite acusmatiche, c’è sempre stata una partenza da materiali del mondo reale o addirittura da musiche preesistenti. Questo per me è un ritorno a un’esperienza di suono più elettronico, che poi si correla con altri musicisti e soprattutto con l’aspetto improvvisativo. Lo strumento analogico permette di fare questo in maniera molto naturale. Ci sono tantissime ricerche che si sono scervellate per fare delle interfacce naturali, di cattura del gesto, con risultati a mio modo di vedere piuttosto scarsi, proprio perché non si sono riverberati in una prassi strumentale. Lo strumento analogico ha invece stabilito una propria prassi, un proprio repertorio, una propria modalità di utilizzo come gli altri strumenti, consentendo in questo modo una grandissima possibilità di espressione».
Tra improvvisazione su strumenti analogici e mondi digitali più matematici, cos’è per te la forma musicale?
«Questa è una domanda un po’ difficile… Per me esistono molte forme musicali. Si può parlare di quelle in rapporto con l’improvvisazione, che è una pratica molto interessante, che consente di entrare in relazione profonda con altre persone, ma anche con se stessi. E’ fortemente influenzata dall’istante, dall’emozione dell’istante, e di conseguenza influenza anche la forma. Una stessa struttura può un giorno durare dieci minuti, un altro giorno venti, proprio perché è un modo di rapportarsi al medesimo schema che cambia modificando la forma. Ovviamente il rapporto tra forma e improvvisazione è molto particolare e ci sono molti studi che affrontano questo tema. Le tecnologie all’interno di questo rapporto hanno ampliato il ventaglio delle possibilità mettendo a disposizione strumenti estremamente sofisticati per lavorare sull’improvvisazione».
Cos’è Tempo Reale e cosa si fa all’interno di questa struttura?
«Tempo Reale è stato fondato da Berio nel 1987 e inizialmente era una struttura organizzata per permettere di concepire i suoi lavori con l’elettronica e questa tradizione di esecuzione di riferimento continua. Oggi però Tempo Reale è una struttura molto poliedrica, che ha tanti settori di intervento, riassumibili in tre grandi aree che sono la produzione, quindi l’ideazione e la realizzazione di nuovi spettacoli e nuove forme musicali, che coinvolgono le tecnologie in collaborazione con i compositori, musicisti e interpreti. Poi la ricerca con i suoi vari filoni – cosa, per inciso, che si fa sempre più fatica a sviluppare visto come sta andando la ricerca in questo paese. Comunque si cerca di investigare dei settori che riguardano l’elaborazione del suono dal vivo o i sistemi di interazione musicale per i concerti e altri settori legati alle discipline più attuali dell’informatica musicale. Infine la formazione: più o meno regolarmente organizziamo delle attività di formazione sia professionale, sia attività didattiche per le scuole elementari o le scuole superiori, progetti con giovani compositori, workshop con artisti e scienziati da tutta Europa. Non ultimo abbiamo istituito nel 2008 il “Tempo Reale Festival” che è proprio destinato presentare la musica che fa ricerca con le tecnologie».
aprile 2009 © altremusiche.it / Michele Coralli
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