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In questo “autoritratto” c’è tutto il miglior Manzoni, quello che ha avuto un ruolo preminente all’interno della recente storia musicale del nostro paese: il rigoroso strutturalista, il costruttore seriale, il musicista dell’oggi che guarda con rispetto al passato, il coerente mètre à penser che traduce e trasmette con fermo rigore il mondo culturale mitteleuropeo (ma non solo), il compositore impegnato che cerca di nutrire il proprio linguaggio musicale con la riflessione politica, il ricercatore della materia sonora all’interno di un consapevole e mai sbilanciato trattamento che contempla in modo controllato elementi assimilabili al rumore e alla manipolazione elettronica.
Scorrendo in ordine cronologico le opere qui proposte si inizia dall’epoca in cui l’autore è un neo-diplomato a Conservatorio di Milano e il suo lavoro intriso di modernismo dodecafonico si rispecchia in un’opera tripartita come Preludio – “Grave” di Waring Cuney – Finale (1956) per clarinetto, tre archi e voce femminile, costruita attorno alle parole del poeta nero Cuney che richiamano quasi un vecchio blues. Con Musica notturna per cinque fiati, pianoforte e percussione ci spostiamo in avanti di un decennio per giungere al 1966: si tratta di un lavoro che si abbandona, secondo lo stesso Manzoni, al piacere di far musica in modo intimo e raccolto, secondo un linguaggio che trova analogie con la pallida luce diafana di Morton Feldman. Già matura e perfettamente iscritta nel quadro delle sperimentazioni strumentali in interazione con materiali elaborati su nastro magnetico l’opera per clarinetto Percorso GG (1979), votata a un modernismo di grande poesia e suggestione.
Con le Scene sinfoniche per il Doktor Faustus (1984) ci si affaccia al mondo delle grande forme a cui Manzoni si è ampiamente dedicato: precedono nel tempo la stesura dell’opera Doktor Faustus, pur correlandosi anch’essa, nei contenuti trattati, a “spunti” da Thomas Mann elaborati dall’autore. In questo caso il colore complessivo della scrittura mette in risalto aspetti di dissidio interiore elaborati attraverso un tessuto sonoro irto di dialettiche sonore. Con Dieci versi di Emily Dickinson (1988) si ritorna all’omaggio letterario attraverso una compenetrazione suono/parola poetica che ha rari raffronti nella musica contemporanea. Infine Omaggio a Josquin rende manifesto quell’attaccamento alla tradizione che, anche in compositori che creano un solco netto con il passato, non è mai negato in modo dogmatico, al contrario “restaurato” attraverso una trascrizione che sa anche essere atto di riverenza e rispetto.
Non sarà tutto, ma certamente qui si trova il Manzoni necessario.
2008 © altremusiche.it
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