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Durante la rassegna “Out Off Musica” organizzata nel febbraio 2017, in occasione dei 40 anni del Teatro Out Off di Milano, incontriamo Giancarlo Cardini negli studi di Radio Popolare. Quella che segue è una lunga chiacchierata tra Claudio Ricordi, Michele Coralli e il maestro.
Quello che mi piace quando incontriamo un musicista, un interprete o un autore – visto che lei è stato un po’ tutte queste cose insieme – è sapere qual’è stata la prima scintilla che l’ha avvicinata, con consapevolezza, voglia ed entusiasmo, alla musica.
«Mi ricordo che in età adolescenziale sentivo molto spesso alla radio trasmissioni di musica leggera, di canzoni italiane, si parla della fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60. Poi ricordo una mia grande passione per i cantautori della scuola genovese, quindi Paoli, Bindi e Tenco, specialmente. Fu una passione davvero travolgente perché compravo i dischi, gli spartiti per canto e pianoforte. Dopo un po’ di anni mi venne la voglia di trascrivere per pianoforte una selezione di queste canzoni che amavo. E infatti il disco che poi feci sulle canzoni di Bindi si intitolava proprio “Le canzoni che ho amato”, un titolo che mette bene in chiaro la mia posizione nei confronti di questa produzione. Devo anche dire che essendo io un musicista di estrazione classica, questo mio abbraccio nei confronti di queste forme minori (per non dire peggio) ha provocato un po’ di sconcerto e stupore. Tutt’ora persiste un’aria di superiorità rispetto a questi prodotti».
Lei intuì invece la grande rivoluzione della prima ondata dei cantautori…
«Sì, prima dell’arrivo dei cantautori genovesi uno stile canoro e musicale che detesto tutt’ora, quello dei vari Nilla Pizzi eccetera… Quello stile dolciastro, bassamente sentimentale. La ventata di rinnovamento la colsi invece con grande entusiasmo».
Ma fu quello che le diede lo stimolo per studiare il pianoforte o lo stava già studiando?
«Lo stavo già studiando. Però ricordo che in Conservatorio, alla fine degli anni ‘50, c’era un’atmosfera molto severa, non favorevole agli sconfinamenti nella leggera. Io frequentavo la classe di Luigi Dallapiccola e quando lui lasciava la sua stanza io suonavo queste canzoni in una specie di profanazione delle aule del Conservatorio. Non era percepita la differenza da parte di questi severi tutori dell’ordine musicale che stavano apportando quei cantautori rispetto a ciò che aveva preceduto».
Su quelle canzoni poi lei ha prodotto diversi progetti discografici, lavorando molto in fase di arrangiamento con trattamenti quasi di stampo jazzistico. Da dove arriva questo tipo di interesse?
«Ci sono stati dei musicisti jazz di cui mi sono innamorato, uno di questi era George Shearing. Avevo comperato un fascicolo di suoi arrangiamenti di canzoni, specialmente americane. Ricordo che mi fecero una grandissima impressione dal punto di vista delle scelte armoniche molto raffinate. Qualche riflesso di Shearing si ritrova negli arrangiamenti che molti anni dopo ho fatto sulle canzoni italiane, americane, cubane, brasiliane e francesi».
Mi interessa molto la sua scelta di pubblicare un disco dedicato a Giulio Ricordi e al suo salotto.
«Anche questo può sembrare strano e incomprensibile per uno come me che ha dedicato la maggior parte del suo impegno musicale, anche concertistico e intellettuale, alle posizioni più avanzate, più sperimentali, più avanguardistiche – un nome su tutti Cage. Però, a differenza di alcuni miei colleghi che hanno amato e amano tutt’ora queste correnti sperimentali, però accanto a questo loro impegno accanto alla musica più radicale, convive una specie di rifiuto della musica più facile o più commerciale. Io ho un’altra posizione. Per Ricordi fui contattato da Italo Gomez, che era l’organizzatore dell’Autunno Musicale di Como, per partecipare a un concerto di musiche pianistiche di Giulio Ricordi, che io non conoscevo. Mi misi quindi a cercare nelle biblioteche dei Conservatori di Milano e Firenze queste musiche salottiere e me ne invaghii letteralmente. Per cui realizzai dopo poco tempo un concerto alla Biennale di Venezia con una scelta di pezzi pianistici e successivamente realizzai un 33 giri. Giulio Ricordi è un personaggio sicuramente notevole. In alcune delle composizioni per pianoforte utilizza – parliamo di fine ‘800 – delle trovate che avranno espressione addirittura in alcune sperimentazioni futuriste. C’è un pezzo intitolato Tramway Galop ispirato al convoglio trainato da cavalli al pianista viene chiesto di azionare il corno di allarme…».
Un gesto futurista, per intuito, non certo per scelta.
«Sì, sicuramente. Poi sulle due mani l’interprete deve mettersi delle sonagliere ai polsi. C’è anche un altro pezzo che si intitola Berebe! (polka) in cui il pianista deve azionare una trombettina. Aveva quindi delle intuizioni sorprendenti. Accanto a queste bizzarrie, non arrivo a dire che avesse delle genialità, ma sicuramente un grande talento compositivo…».
… come sosteneva anche Giuseppe Verdi.
«Sì, era un musicista della domenica. Cioè scriveva quando ne aveva il tempo, ma nella sua produzione ci sono delle cose notevoli. Però rimaste oscurate dal suo lavoro di editore».
Maestro Cardini, ha appena partecipato a una quattro giorni con un programma molto interessante nel quale ha potuto mettere alla prova la doppia valenza musica leggera/avanguardia attraverso ascolti molto diversi, ma, al tempo stesso, molto omogenei. Dalle sue composizioni con gli omaggi a Sassi, Mosconi, a Caetano Veloso, Giuliano Zosi e John Cage con “4:33”. Quante volte ha eseguito questo brano nella sua vita?
«Ricordo di averlo eseguito molti anni fa a una forma di spettacolo-concerto con musiche di Bussotti e Cage. Si parla di inizio anni ‘80 e da allora non l’ho più eseguito».
E come mai l’ha tirato fuori in questa occasione?
«Perché la ritengo un’invenzione genialissima. Lui stesso considera questo pezzo come un manifesto della sua poetica e lo dice lui stesso in certe sue interviste. Dicendo ascolto in questa composizione ci si riferisce a tutti i suoni o rumori prodotti senza intenzione, questa è la cosa fondamentale, da forze della natura o, molto meno, da interventi umani. Per quanto riguarda questi ultimi ricordo che quando lo eseguivo la reazione di una certa parte del pubblico era molto critica. Commenti salaci o stupidi, molto prevedibili. Tutti questi interventi erano una distruzione completa del senso di questa composizione che consiste proprio nell’aprire la propria sensibilità e le proprie orecchie a cercare di carpire i minimi rumori e suoni prodotti inintenzionalmente nell’ambiente».
Oggi secondo lei questo pezzo ha ancora una valenza di stimolo o di provocazione?
«Siccome l’80% degli spettatori che vengono a seguire questi concerti non so se hanno letto le dichiarazioni concettuali che stanno alla base di questo pezzo, non essendo a conoscenza degli antefatti intellettuali, probabilmente lo prendono per una gag strana e insultante nei confronti del pubblico».
Oggi però sembra molto più metabolizzato come pezzo…
«Sì, è vero. Interessante è considerare in contesto in cui viene eseguito. Se, mettiamo, è un festival di musica contemporanea le difficoltà di ricezione dovrebbero essere minori. Ma non è sempre così. Perché non è detto che chi ama la musica di Donatoni, Boulez, Stockhausen, ami poi queste e altre composizioni di Cage in cui si opera una distruzione dell’oggetto come forma fissa immutabile. Quindi la destinazione del messaggio poetico e filosofico di questo pezzo è destinato a una categoria di ascoltatori illuminata, cioè disposta a questo esercizio di contemplazione del silenzio, che poi non esiste. Pezzi come questo rappresentano principalmente una ricerca di acuta sensibilità verso il mondo del suono e del rumore. Cosa in precedenza mai tentata da nessun musicista, a parte i primi sperimenti futuristi. Marinetti scrisse, credo alla fine degli anni ‘20, dei brevissimi sketches e in uno di questi ce n’era uno che prevedeva un tempo di silenzio assoluto. Marinetti non era un musicista, ma questo si può considerare un antecedente del pensiero di Cage, almeno rispetto a questa prospettiva di ascolto».
A proposito di fruizioni problematiche da parte del pubblico, una delle sue performance più note e ancora oggi più seguite su internet è quella dell’Arena nel 1979 in occasione del concerto per Demetrio Stratos. Quella è stata una delle occasioni in cui la musica d’avanguardia si è scontrata con la massa. Che ricordo ha di quella situazione?
«Un ricordo sgradevole con il passare degli anni. È stata un’iniziativa troppo azzardata e poco realistica. Si stimava in 40 o 50 mila il numero degli spettatori presenti all’Arena Civica. Di questa massa di giovani forse solo 20 avevano sentito parlare – poniamo – di Cage o di Feldman o di Boulez. Nessuno probabilmente aveva mai assistito a un concerto di musica contemporanea con pezzi come quelli, duri e di difficile ricezione».
Che, ricordo, erano Novelletta di Bussotti (e suo), e Solfeggio parlante di Castaldi (a lei dedicato).
«Sì c’era un clima di forte contestazione contro queste mie esecuzioni. Certamente in questa massa vociante che a volte rischiava di sommergere i suoni che producevo. Per quanto riguarda la mia esecuzione di un pezzo notato in modo non completo, cioè Novelletta, la parte di collaborazione creativa è anche da assegnare all’esecutore, perché la partitura pianistica è abbastanza sintetica e prevede una realizzazione che introduca un quoziente di creatività. Nella mia realizzazione chi conosceva esempi di pianismo free jazz poteva fare un raffronto. In quel pubblico però un’assai minima parte era a conoscenza di quelle esperienze».
Erano lì per Guccini…
«Sì, sì, sì… Se avessero collegato questo stile a precedenti ascolti di area free jazz forse sarebbe stata meno violenta la contestazione».
Però forse non dico un sassolino, ma un vero e proprio macigno nello stagno quella performance lo buttò.
«Sono abbastanza scettico sulle conquiste alla musica contemporanea maturate dopo quell’esperienza, così come in quella del Parco Lambro dove eseguii a due voci con Paolo Castaldi quel solfeggio che porta il mio nome. Per quanto riguarda appunto Solfeggio parlante esiste un precedente nella produzione artistica del Nocevento una composizione per voce sola che si intitola Ursonate del pittore dadaista Kurt Schwitters. L’ho sentita eseguita in modo magistrale da Giuliano Zosi, che era un performer di grande talento. Non so le Castaldi conoscesse questo pezzo. La cosa interessante che Cardini Solfeggio parlante utilizza a forma di collage dei solfeggi didattici di Ettore Pozzoli, tutt’ora utilizzati nei Conservatori. In più con un collage molto ampio tratto da rotocalchi e quotidiani che dovrebbe la giusta interpretazione di tutti i frammenti. Richiede quindi dall’esecutore un’immedesimazione fulminea verso una coloritura espressiva che rispecchi le frasi estratte dai giornali. A differenza di Schwitters, Castaldi utilizza un dato accademico di partenza per poi stravolgerlo, agendo su questo dato in forme anche forse eversive o comunque non aderenti allo spirito originario di questi frammenti. Quindi si può dire che in Castaldi esista un atteggiamento bivalente nei confronti della tradizione. Ci sono anche dei suoi pezzi per pianoforte che utilizzano frammenti di composizioni classiche e romantiche. Uno di questi è Elisa che trasforma e distorce il famoso Per Elisa di Beethoven fino alla fine del pezzo ad una specie di orgasmo espressivo del pianista che ripete freneticamente e ossessivamente un cluster nel registro centrale della tastiera. E poi termina con un’emissione vocale [la canta, ndr]».
Una curiosità sul Cardini compositore. Che cos’è Il castello insonne?
«È una specie di happening che si dovrebbe svolgere a notte fonda in un castello, quando cioè siano assenti rumori di disturbo. Il castello dovrebbe avere una ventina di stanze pronte per l’uso per diverse situazioni musicali e non. Ogni azione scenica deve comprendere l’elemento musicale sia in forma di strumento – per esempio nell’esecuzione che fu fatta alla Biennale di Venezia nel 1992 era presente il contrabbassista Fernando Grillo, morto qualche anno fa. Il su intervento consisteva solamente nel giacere addormentato con accanto il suo strumento al cui interno erano stati collocati dei fiori. Gli spettatori entravano uno alla volta, potendo sostare solamente un minuto. In questo minuto avveniva un’azione perfomativa o soltanto la contemplazione del quadro scenico. Dopo Venezia non fu più ripresa».
C’è un Cardini che torna al classico sul pianoforte? Bach, Mozart. Beethoven…
«Ho fatto tanti concerti nella mia vita e fare concerti comporta molte ore di studio. E tutte queste ore impiegate per la costruzione di questi programmi ora le reputo perse. Perse per il mio arricchimento di conoscenze. Passo molto tempo a leggere libri di ogni e mi ritengo molto arricchito da questo. C’è una differenza fondamentale però da fare. La cosa che faccio molto volentieri quando me se ne presenta l’occasione è di registrare su disco opere che amo. Cosa che ho fatto anche recentemente su questo ultimo disco [“Rituals”, A Simple Lunch 2014]. Quindi studiare per poi registrare è una cosa che faccio volentieri. Io però sono intellettualmente contro questi oggetti di culto che sono diventati i dischi che hanno il difetto di essere sempre uguali. Di eternare un’esecuzione che non cambierà più. Siccome l’essenza della vita è il cambiamento, questo come molte altre cose nella vita attuale, si fonda su cliché che impoveriscono l’esperienza viva. La fotografia è un’altra forma di appiattimento dell’esperienza vitale che compiamo ogni giorno sia a livello di ascolto, sia a livello di visione. Si può considerare anche la scrittura, la poesia, il romanzo come forme superabili perché privi di quella scintilla vitale che non sarà mai uguale in una successiva occasione. Non è che non amo gli autori classici. Io amo molto Puccini, Chopin, Schumann. Non ho una posizione di allontanamento, però non li suono perché questo comporta un sacrificio di tempo che preferisco impiegare leggendo un libro di estetica teatrale o di filosofia».
Tra le sue ultime composizioni c’è Rituals for the Ryoanji Garden. Dalla sua presentazione al concerto che ha recentemente tenuto all’Out Off è sembrato che sia un pezzo a cui tiene particolarmente…
«Sì perché riunisce alcuni miei amori per la cultura giapponese, che sono l’haiku, come forma poetica massimamente essenzializzata in tre versi, e forme teatrali e musicali come il gagaku, forme teatrali come il teatro nō e la celebrazione della primavera con la rappresentazione stilizzata di fanciulle inondante dall’alto di petali di fiori di ciliegio. In questo pezzo appunto cito una canzone per bambini dedicata proprio ai fiori di ciliegio. In questo lavoro credo di avere realizzato quello che sentivo da tempo nei confronti di questa forma espressive e artistiche giapponesi».
Un amore, quello per la cultura giapponese, che nutriva anche Cage.
«Sì tant’è vero che a metà degli anni ‘40 frequentò un corso con lo scrittore Suzuki sul buddismo zen. Poi lo stesso Cage ha scritto una composizione, Ryoanji, che si riferisce al famoso giardino zen di Kyoto, che non è un giardino in senso occidentale: ci sono delle pietre disposte in modo asimmetrico e le persone che vanno a visitare questo giardino siedono in contemplazione. Non ci sono suoni, ma solo silenzio».
Chi era Howard Skempton?
«È un compositore inglese a cui sono molto legato. La sua particolarità stilistica è di scrivere pezzi per pianoforte molto brevi. Non è quello che si intende per musica contemporanea, cioè dissonante o respingente. Utilizza una sintassi della musica tonale ma con grande raffinatezza. In un certo senso si può ricollegare anche l’haiku per l’essenzialità espressiva e dell’atmosfera contemplativa».
E “i Prati del Paradiso”?
«È una mia composizione scenico-musicale, basata su poesie di Aldo Palazzeschi, per voce recitante e un piccolo complesso di musicisti. Palazzeschi come invenzione era un pre-surrealista, come fantasmagorie».
Sta pensando a qualche progetto?
«Le ultime cose che ho scritto sono questi omaggi ad alcuni intellettuali scomparsi di recente come Gianni Sassi, Davide Mosconi a cui ero legato da una fortissima amicizia che si è manifestata anche in progetti comuni. Sassi è stato un mio grande estimatore. Fu proprio lui che organizzò il concerto per Demetrio. Un altro musicista scomparso a cui ero molto affezionato fin dagli anni del Conservatorio era Giuliano Zosi. Non ho ancora smesso di trascrivere canzoni. Le ultima sono state Che cosa c’è di Paoli e Luna nuova su Fujiyama di Bindi. Nonostante ne abbia già fatte un’ottantina, continuo a farne. È un repertorio però che non si spinge oltre agli anni ‘70, fino forse a Burt Bacharach, Ma l’ascolto che mi stimola ancora molto è quello della bossa nova degli anni ‘60 con vari Jobim, cantato da Joao Gilberto, Chico Buarque, Astrud Gilberto e in seguito anche Caetano Veloso, Vinicio de Moraes, Dorival Caymmi. E tutt’ora ascolto i dischi di questi musicisti brasiliani con grande piacere. Può darsi quindi che ne faccia qualche altro…».
[intervista trasmessa da Radio Popolare – Rotoclassica il 9, 16 e 19 febbraio 2017]
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