Gianni Mimmo: un sax e una radio a valvole [intervista]

Foto: Stefano Galvani
Michele Coralli

Una delle etichette che nell’ultimo periodo ha presentato i progetti più stimolanti in ambito jazz-impro è certamente la Amirani Records di Gianni Mimmo, sassofonista e artigiano, oltre che propulsore di una piccola realtà fatta di idee e progettualità. Gli abbiamo chiesto illustrarci alcuni dei lavori da lui pubblicati sia in veste di produttore che di musicista. Ne è scaturito un modo meno ellittico per approfondire il percorso di una piccola ma stimolante realtà.

«In catalogo ci sono lavori che testimoniano una situazione consolidata e altri che testimoniano passaggi. Entrambi hanno eguale importanza per me, ma differente declinazione. Il primo album, il mio One Way Ticket, equivale per me a un riconoscermi, è un lavoro che svela e dice chiaro chi mi credo di essere. Ha una sorta di rispetto, una specie di severità che sento essere utile. Qui io giro una pagina, guardo meglio e capisco le prospettive. Questo è un disco nel quale è come se parlassi. È nato in un momento denso e duro, ma anche fertile. E’ anche un lavoro sul silenzio. Questo è l’unico lavoro che assomma entrambe le caratteristiche che dicevo: testimonianza e passaggio.

Two’s days/tuesdays è il duo con Angelo Contini e dice di una consolidata prassi di scombinare, di come stare su una lama affilata sia una pratica che regala sempre il meglio. Con Angelo è una gioia suonare, è materia concreta e plasmabile, è ficcarsi in certi vicoli bui e trovare all’improvviso il modo d’uscirne, è lavorare con poco e bene. Dal vivo questo duo scolpisce la luce, ascoltarlo è sempre come vedere la musica.

Bespoken è un lavoro che viene da una lunga, strana e proficua indagine. Incontrare Lorenzo Dal Ri è stato per me una scuola. Ho letteralmente cambiato il modo di ascoltare il suono grazie a questo ragazzo. Questo cd continua ad essere impiegato in ambientazioni, performance di danza, gallerie d’arte, luoghi. È una narrazione che potrei ascoltare per ore e trovare sempre una parte che chiama ad uno sguardo nuovo. Lavorare con il trattamento elettronico, il field recording è per me come avere un altro sé, il mio saxofonismo ha trovato una strada purissima qui. Non c’è idiomatismo. Era impossibile non metterlo su cd.

Samsingen è la testimonianza di una relazione, dell’incontro fra persone prima ancora che fra musicisti, del desiderio e della possibilità di abitare una distanza culturale in modo profondo e non percorrendo la via di un semplice accostamento. È un gruppo di giovani musicisti che mettono in scena questo incrocio, uno spostamento, una ricollocamento del testo (sono testi arcaici in lingua e dialetto svedese) in un ambito quasi contemporaneo. Ne esce una specie di narrazione magica, ma non esotica, scandita dalla voce di Anna Kajsa Holmerg, Luca Serrapiglio (clarinetto basso), Andrea Serrapiglio (cello e lo-fi devices), Nicola Guazzaloca (vibes e accordeon). Quando l’ho ascoltato ho compreso che era la musica ad indagare questa relazione, che c’era un’appartenenza alla musica e che tutti ne erano stati trasformati. È stato un punto di partenza: mastering, grafica, ma soprattutto motivazione concettuale sono stati a lungo indagati e anche testimoniati dal lavoro di remix di un brano affidato a Lorenzo Dal Ri, che ha curato il mastering creativo e sobrio di tutto il lavoro. È una produzione nella quale ho fatto davvero il produttore.

Kursk_Truth in the End è un dvd nel quale ho speso molto tempo. È un lavoro al quale tengo in modo particolare per molte ragioni. La musica è senza dubbio l’asse portante dell’intero progetto. Abbiamo avuto la grande opportunità di suonare e di registrare in questa chiesa sconsacrata millenaria sfruttandone possibilità dinamiche, sottigliezze timbriche, riverberi naturali. Xabier Iriondo e Lorenzo Dal Ri hanno dislocato alcuni microfoni estremamente raffinati in differenti parti della chiesa, così da poter catturare ogni effetto naturale proveniente dai nostri strumenti. In effetti è stato un filmare il suono mio e del trombone di Angelo Contini. Così certi suoni gravi sembravano venire da una distante profondità, tutta la performance è stata estremamente intensa, gli effetti dinamici molto thrilling e tutte le persone coinvolte hanno avvertito una meravigliosa vibrazione. L’elaborazione elettronica e il trattamento del suono curato da Xabier Iriondo ha suggerito strane e stranianti possibilità d’intonazione.

Ogni aspetto della tragedia del Kursk è stato così a fondo indagato dai media: da una parte abbiamo una massa di parole, di schemi tecnici, verità ufficiali,versioni differenti e supposti misteri. Dall’altra la nostra interpretazione della tragedia: ciò che possiamo pensare intorno alla impossibilità di riemergere per un sottomarino di quella portata, più di 100 persone di un equipaggio. Possiamo certamente avvertire la grande forza metaforica, lo sconosciuto, l’invisibile, l’umana piccolezza e l’eroismo scritto in un piccolo biglietto ritrovato nella tasca di un tenente di vascello lucido nel momento della morte. Elda Papa per esempio immaginava i corpi dell’equipaggio come visti in trasparenza, un mare di visi oltre il tempo, oltre il mare come una specie di bandiera sommersa. L’aderenza lo stretto spazio condiviso e gli odori del sottomarino.

Agua Mimmo diceva che lui poteva solo far riferimento a frammenti di vecchi film. Era anche affascinato dall’aspetto tecnico dalla perfezione costruttiva messa in crisi dall’errore umano.
Così ha pensato di filmare anche devices e comandi dei sottomarini. Terminare l’editing della parte immagini è stato veramente difficile perché la musica era lo storyboard. Ma credo che le immagini possano arrivare ad assumere la forza dei poemi omerici trasportata ai nostri tempi.

A Watched Pot è un trio che amo perché è seminale, condiviso, smagliante come un cartoon. È come se sapessi che incontrare e fare campo con altri viandanti dei quali avevo colto una certa luce nello sguardo, potesse dare un cambio di prospettiva utile a tutti. Infatti solitamente i musicisti coinvolti in questo trio non suonano così nei rispettivi progetti. Il lavoro è totalmente improvvisato, con qualche mia indicazione generica circa la necessità di stare scomodi, della utilità di uno smarrimento. È un lavoro di un lirismo sbilenco e raffinato insieme. Francesco Cusa è un distillatore qui e Andrea Serrapiglio ribalta i piani armonici con un piglio a volte romantico. È come un susseguirsi di stanze, ognuna con strane finestre oblique.

Dare voce al lavoro di Claudio Lugo che con Esther Lamneck ha interpretato e “suonato” le strade di Genova, i suoi docks, i suoi muri salmastri. Genoa Sound Cards è speciale, è musica “nella” vita di una città. È una musica suonata “dalla” città. Poi due timbri sonori che si sentono provenire e andare, come navi. Bellissimo.

Sono tornato ancora a fare il produttore con Wanderung di NovoTono, questo duo contemporaneo dei fratelli Adalberto e Andrea Ferrari. Quando ho sentito il loro demo ho trovato un’idea compositiva molto insolita. La timbrica estesa della famiglia dei clarinetti, il lavoro sulle pause e, per me fondamentale, sulle dinamiche sono stati i motivi primi della fascinazione. Poi ho scoperto una motivazione concettuale finissima intorno all’idea del “wanderer” (il viandante nella sua accezione romantica di adesione, concidenza appartenenza alla strada), che stava intorno alla modalità di composizione. Qui ho voluto curare in modo particolare la resa sonora e ho sviluppato anche il tema del concept con cura sulla scelta grafica del cd».

Cosa ti aspetti da un progetto come quello di Amirani? Si può ancora fare cultura attraverso un’etichetta discografica e, per ultimo, dove speri che arrivi la tua musica?

«Amirani mi dà un privilegio, una postazione per osservare. Mi aspetto che continui ad essere interessante indagare e provocare i musicisti e le fresche intelligenze. Amirani non vuole enciclopedia, vuole lavori urgenti e sentiti e discussi, in un certo senso. Mi attendo che divenga una specie di luogo nel quale chi ha avuto la ventura di entrare si senta parte di un processo, di una possibile trasformazione. Desidero e voglio che chi passa da certi sentieri ne ricordi i segni, gli incontri e le possibilità.

Qualche settimana fa mi è capitato di riascoltare la voce di Pasolini, il peso profetico delle parole, ma soprattutto mi ha di nuovo colpito il coraggio della possibilità di parlare. Amirani può essere un posto fatto per dirsi il perché del proprio fare musica. Un posto di domande, intere e profonde.
Dopo questi due primi anni di vita della label ho forse insistito troppo su questa impostazione, ma i risultati sono buoni e i musicisti che incontro non dicono o fanno cose banali. Pensano a cosa proporre e soprattutto aprono una considerazione sul proprio far musica. Beh, anche se in piccola misura, credo che questo sia fare cultura. La label è solo un pretesto ma, grazie a questo stesso pretesto, cose si agitano.

Spero che la mia musica arrivi a persone e a luoghi in modo non rassicurante. Spero sempre che faccia sorgere qualche dubbio e qualche domanda, attenzione. Spero in una funzione un po’ sbilanciante. È meravigliosa la gratificazione, la soddisfazione di veder riconosciuti i propri sforzi. Sensibilità accese, stima. Tutto questo è straordinario regalo. Ma io credo che utile sia sentire che qualcosa si muove, che un pubblico venga toccato nel profondo. Un po’ meno sicurezza e più apertura.
Sai, anche il pubblico dell'”avanguardia” (so che sorridi anche tu a questa parola) contemporanea è molto convenzionale. Prova a suonare un solo, improvvisa e prova ad indugiare in una melodia scaturita dal percorso sonoro. Bene, alla fine qualcuno te lo rinfaccerà, come fosse un cedimento. Anche lì avrai provocato uno spostamento, uno smarrimento. Sono momenti di grande importanza comunicativa».

Per finire cosa ne pensi dell’attuale scena jazzistica?

«Io non vedo una scena jazzistica, ad essere precisi non vedo scene. Vedo individui. Non sono tempi buoni. Ma ci sono brillanti intenzioni e poche connessioni, se naturalmente escludiamo i clan autoreferenziali. Il jazz è davvero jazz se diviene. È una musica che diviene, trova la sua ragione nel divenire. Non credo si debba celebrarlo, nel momento che lo si fa, e lo si fa in continuazione, lo si uccide. Vedo ripetizione, pattern, modi. Non so, sono un po’ sfiduciato circa questa coazione a ripetere».

gennaio 2008 © altremusiche.it / Michele Coralli

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