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In una nostra intervista pubblicata su questo sito nel 2004 Giovanni Verrando sottolineava l’importanza della ricerca di uno stile come punto di partenza dell’agenda professionale di un compositore di musica contemporanea. Ci raccontava infatti che “l’individuazione di uno stile, attraverso l’estremizzazione dei propri elementi linguistici, sia la via per sfuggire in modo efficace all’omologazione, sia utile a rappresentare la ricchezza e l’intensità dell’io, a produrre quello choc subitaneo, quell’eccitazione sensoriale scatenata dall’incontro con la differenza che è vitale per l’arte e per lo sviluppo delle società”. Una bella dichiarazione di intenti che sottende anche una visione dell’arte nella sua essenziale relazione con la società, molto condivisibile, per quanto probabilmente ormai quasi completamente uscita di moda. Aiutati quindi da quanto affermato nel corso di quell’intervista ascoltiamo questo nuovo lavoro, “Dulle Griet”, raccolta di brani composti da Verrando tra il 2001 e il 2010, una fase che segna il passaggio, o meglio la progressione verso il mondo interiore dei suoni, un luogo dove convivono l’armonico e l’inarmonico. Ma andiamo con ordine.
Estremizzazione dei propri elementi linguistici. Potrebbe essere questa la chiave di lettura di fronte a composizioni solo apparentemente distanti, ovvero separate più sul piano timbrico che intimamente linguistico. In virtù di questa “estremizzazione” sembra non casuale utilizzare come incipit il brano per ensemble amplificato che dà il titolo alla raccolta, Dulle Griet – alias “Margherita la pazza”, quadro del fiammingo Brueghel e raffigurazione che ben si presta a immaginare il moderno, violento e incomprensibile caos del mondo attuale. Si tratta di un paesaggio sonoro con una sostanziale valenza elettronica, sebbene filtrata da quella “nuova liuteria” che non è altro se non un insieme interconnesso di sistemi elettroacustici digitali, integrati secondo una prospettiva che rende vetusto l’antico dualismo tra strumenti acustici ed elettronici. Un tuffo quindi nel mondo inarmonico il cui l’affresco è dato dall’utilizzo combinato di rumore, suoni spettrali e il ripescaggio di un’idea di armonia storicizzata, ma per nulla superata. Un lavoro estremo, urticante e per nulla compromissorio, esattamente come il successivo Third Born Unicorn, Remind Me What We’re Fighting For, per violino elettrico ed elettronica, più legato allo specifico strumentale con un uso molto insistito delle arcate e per questo forse meno persuasivo del primo. First Born Unicorn, Remind Me What We’re Fighting For per flauto amplificato lascia andare improvvisamente tutte le vesti digitali per presentarsi ex-abrupto in una maniera nuda e cruda alle orecchie sbrecciate dell’ascoltatore: una pagina che per nitore sembra coerente poter mettere in relazione con Seascape di Romitelli.
Si ri-entra con convinzione nel “puro” mondo acustico con il Quartetto n.3, che già avevamo avuto modo di ascoltare in una registrazione dell’Arditti al Milano Musica del 2003. Si tratta, personalmente, di una delle composizioni migliori e forse anche una di quelle che lasceranno un piccolo segno in un’epoca pallida e discontinua come questo principio di millennio. Scrivere oggi per quartetto può valere il senso di una mezza trappola accademica, un puro esercizio di stile nel quale si corre il rischio di venir fagocitati da un pericoloso autocompiacimento formale. Qui ci si tiene alla larga da tutto ciò, dapprima con un primo movimento (rapido) che si gioca tutto su un efficace disegno ritmico molto spettrale, che subisce una serie di trasformazioni e riprese in bilico tra ripetitività, indeterminatezza d’intonazione e fugacità della pulsazione. Poi con un secondo movimento (mobile) che invece gioca sulla parcellizzazione dello spazio sonoro, che trova il corretto equilibrio tra gusto per la lavorazione nano-tecnologica e l’uso naturale della forza del silenzio. In estrema sintesi un grande lavoro.
Ulteriore continuità tra la precedente composizione e la seconda tappa della trilogia Second Born Unicorn, Remind Me What We’re Fighting For, nata dalla medesima trama costruttiva del quartetto, pur con l’abbinamento di un certo gusto retrò da vecchio ragtime, quasi come in un player piano di Colon Nancarrow. Anche in questo caso il passaggio da un tempo frenetico a uno lento individua il passaggio da un mondo claustrofobico e senza spazi, a quello diafano e sospeso. Altro brano intrecciato con Second Born Unicorn e il quartetto, Il ruvido detteglio celebrato che prende le mosse dai temi del frenetico, configurandosi quindi come una sua elaborazione per ensemble da camera con in evidenzia alcuni tratti zoppicanti e imprendibili sotto il profilo ritmico, cosa che rende ancor più ardua la pagina per gli esecutori.
Chiude Triptich #2 per ensemble elettrico che trova invece rimandi nel Third Born Unicorn e in Dulle Griet, sia per certe analogie melodiche, sia per quanto concerne l’uso del trattamento elettronico, sempre molto magmatico e disturbante. Una specie di cornice che assedia in modo caotico e rumoroso un mondo interiore di suoni molto delicati, quasi come una metafora fiamminga dell’uomo circondato da un caos di cui è responsabile. Sono tempi cupi e i compositori che vogliono dar voce a “quell’eccitazione sensoriale scatenata dall’incontro con la differenza” non possono cedere alla ricerca di un compromesso, ma far letteralmente esplodere le contraddizioni. Quelli che si spingono in quella direzione saranno ricordati, gli altri no. Verrando potrebbe essere uno di quelli che appartengono alla prima categoria
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