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Durante l’esecuzione domestica di questo CD, potrebbe succedere di voltarsi improvvisamente verso il proprio impianto stereo, per verificare se il disco è terminato oppure no. Poi ci potrebbe accorgere che un suono, in un primo tempo quasi impercettibile, fa capolino sul nostro timpano e ci indica che la musica di Kancheli prosegue senza sosta. Potrà sembrare un’esperienza stupida, ma ci permette di cogliere una caratteristica privilegiata, che è cifra distintiva delle opere del compositore georgiano: il silenzio. Così come per molti altri musicisti le pause hanno rappresentato una parte importante ma non totalizzante, attraverso cui si compone la dialettica suono/silenzio, per Kancheli la mancanza di suono o il nascondimento di esso è base stilistica dei suoi lavori.
Ciò avviene attraverso l’uso di dinamiche che sfruttano le variazioni di intensità del suono a netto favore dei pianissimi rispetto ai fortissimi, che esplodono in rari punti, producendo in certi casi un vero e proprio disorientamento nell’ascoltatore. Si potrebbe dire che Kancheli è un vero e proprio esibizionista del silenzio, o addirittura un virtuoso della mancanza di suono (anche se non si tratta di una vera e propria mancanza: i suoni, seppur esili, ci sono). In realtà quello del georgiano, nato a Tbilisi nel 1935, è un processo di decostruzione della forma che si attua attraverso l’assottigliamento dei suoni (sia dei timbri che delle intensità), come nel caso di Bright Sorrow, in memoria dei bambini vittime della guerra, su testi di Tabidze, Goethe, Shakespeare e Puškin, lungo lamento per due voci bianche, coro e orchestra. In questa composizione gli interventi poderosi dell’orchestra in fortissimo sembrano voler soffocare le voci innocenti dei bambini che coprono lunghi frammenti della partitura in una metafora musicale di grande effetto. Mourned by the Wind, liturgia in memoria di Givi Ordzhonikidze, per orchestra sinfonica e viola solista si configura anch’esso come un quadro diafano in cui vengono dissolti strumento solista e orchestra.
da: “Amadeus”, n.100, 1998. © Paragon / Michele Coralli
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