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Sono passati tre anni da quando Hugh Hopper ha abbandonato al loro destino i Soft Machine e in tutto quel periodo che lo separa da quel clamoroso abbandono non si è ancora delineata con chiarezza una valida alternativa professionale a quel gruppo, che volente o nolente, continua a spendere bene il suo nome in tournée di grande successo in giro per l’Europa. Per Hopper si profila un’interminabile serie di collaborazioni tra East Wind di Stomu Yamash’ta, Isotope, Carla Bley Band, oltre al suo celebre progetto in solo che vede la luce proprio al momento del suo divorzio, il noto 1984 (CBS-Cuneiform, 1973).
Nel 1976 ci riprova con un nuovo insieme di registrazioni strappate nei ritagli di tempo dello studio Mobile Mobile di Jon Anderson (lo stesso usato, con le stesse modalità, dai National Health di Dave Stewart e compagni). Hopper ha le idee più chiare e la sua estetica si avvicina molto di più a un jazz-rock più condiviso rispetto a certe sperimentazioni su nastro e a certe ricerche di asimmetrie fini a se stesse. Il gruppo di musicisti che sceglie di stringere a sé pesca dal solito bacino di utenza: Elton Dean, Dave Stewart, Marc Charig, Gary Windo, Nigel Morris e Mike Travis. L’album che scaturisce da questi incontri è certamente il più compatto e coerente di Hopper e forse, non a caso, proprio nel titolo “Hopper Tunity Box” (Compendium-Cuneiform, 1977) trova un giusto battesimo quel lavoro che sintetizza in modo convincente un decennio di esperienze seminali e non derivative. La nostalgia dei Soft Machine è forte e porta la firma delle citazioni di Dedicated To You But You Weren’t Listening e di Facelift, due delle migliori realizzazioni del bassista in quella compagine. I primi tre brani del disco fissano su vinile una delle migliori facciate mai incise in quegli anni: Hopper Tunity Box, Miniluv e Gnat Prong sono il miglior filotto che Hopper possa assestare in un momento in cui i rischi del guardare troppo indietro possono creare malumori e incomprensioni.
Forse è proprio l’orizzonte più genuinamente jazzistico quello che tradisce l’essenza meno ispirata dell’ex Soft Machine. La simil-coltreniana The Lonely Sea and the Sky, ma soprattutto l’omaggio a Ornette Coleman con la sua Lonely Woman, mostrano il destro al lato più debole di Hopper: quello del grande ammiratore di musica afro-americana, ma non quello del grande jazzista. Meglio allora l’orizzonte funky/fusion che ci riporta al calore R&B di certi esordi (Crumble), oppure la consueta attitudine sperimentale con suoni profondi di bassi sottomarini (Mobile Mobile e Ogster Perpetual). “Hopper Tunity Box” rimane un album fondamentale nella non irrisoria discografia canterburiana, come lo sono stati molti dischi di Wyatt, anche se, rispetto all’amico, Hopper ha avuto la sfortuna di non riuscire a trovare nuove sponde in un mondo che a metà degli anni ’70 sta cambiando profondamente. Oggi però è solo tempo di riscoperte…
2007 © altremusiche.it
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