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Figura chiave della storica scena di Canterbury, il bassista e compositore Hugh Hopper ha percorso nell’arco di più quarant’anni itinerari che hanno lambito diverse aree di confine, tra il rock, il jazz e la sperimentazione. Con i Soft Works, un nome che gioca nostalgicamente con il nobile passato, si ripresenta, accanto ad alcuni compagni già noti, per promuovere un progetto prog-jazz, che possiede ancora numerosi estimatori in diverse parti del mondo.
La tua è una carriera lunghissima. Partiamo dalla parte più recente, ovvero da questo progetto Soft Works che coinvolge anche Elton Dean, John Marshall e Allan Holdsword, tutti ex membri dei Soft Machine. E non ci vuole molto a immaginare cosa vuol evocare un gruppo come questo. Chi è che ha avuto l’idea di questa specie di reunion?
«La responsabilità è di Leonardo Pavkovic, della MoonJune Records di New York. Lui conosceva già molto bene Elton Dean ed era intenzionato a proporre una sorta di revival dei Soft Machine, ma nessuno dei musicisti coinvolti erano sinceramente interessati a questa idea. Abbiamo provato allora a vedere cosa questo organico fosse in grado di produrre. La musica che ne è scaturita è completamente nuova, non abbiamo in repertorio nessun pezzo dei Soft Machine. Si tratta di sonorità molto aperte, abbastanza jazzy. Leonardo ha lavorato molto duramente per ottenere un accordo con la Universal per uscire in Giappone. Nell’agosto del 2002 abbiamo eseguito la nostra prima esibizione al Progman Cometh Festival di Seattle».
Che musica interpretano allora i Soft Works?
«Come dicevo, è una musica dal marcato sapore jazzy: Elton Dean è principalmente un improvvisatore di scuola jazz, ma il gruppo esegue pezzi più semplici, scritti da me, come First Trane e Abracadabra. Naturalmente ci sono anche i famosi assolo “haunted owl” di Allan Holdsworth (alla lettera “gufo spettrale”, Hopper attribuisce a Holdsworth questo nomignolo, non solo per il suo modo di suonare, ma anche di vestire! NdR)».
Di questi tempi ci sono diverse reunion che riguardano gruppi del passato. Non pensi che ci sia il rischio per i Soft Works di apparire come uno dei tanti gruppi storici che si ritrovano a suonare insieme?
«Sì, credo anch’io che ci sia questo rischio. È per questo motivo che non abbiamo registrato nessuno dei vecchi brani dei Soft Machine. Non li abbiamo eseguiti nemmeno quando abbiamo partecipato al Progman di Seattle, a parte Facelift, l’unico classico del gruppo che abbiamo rispolverato per il bis finale. Io, Dean, Holdsworth e John Marshall abbiamo intrapreso tutti dei nostri itinerari musicali autonomi. Non stiamo provando a rifare i Soft Machine, nonostante abbiamo tutti militato in quel gruppo, in diversi periodi della storia di quella band».
Ogni ex membro dei Soft Machine (o meglio, ogni ex membro dei Wilde Flowers, il gruppo che ha generato un po’ tutti i gruppi di Canterbury) ha poi avuto una rispettabile carriera in diversi ambiti rock, quasi mai in relazione con le aree più mainstream. Quali sono state le tappe della tua carriera che reputi più significative?
«Beh è una domanda a cui è difficile rispondere, perché dietro ogni esperienza si cela una tappa importante nella carriera di un musicista, soprattutto quando questa si dipana nel corso di quarant’anni. Ho iniziato con i Wilde Flowers per poi diventare bassista dei Soft Machine, per i quali scrivevo anche alcuni pezzi. Sono rimasto con il gruppo fino al sesto album, per poi muovermi da solo in altri progetti come la Yamashta’s East Wind, gli Isotope, la Carla Bley Orchestra. Naturalmente tutte queste esperienze sono state importanti per me, così come lo sono stati i progetti più recenti come Hughscore, Bone e, naturalmente i Soft Works. Ma se te li dovessi elencarli tutti la lista non finirebbe certo qui».
Parlando di strumenti, che attrezzatura hai utilizzato in Abracadabra?
«Ho ancora il mio vecchio basso Fender Jazz del ’62, anche se suono soprattutto un Peavey Foundation. È più facile da suonare e non ho la paranoia che qualcuno cerchi di rubarmelo. Inoltre se si danneggia durante un tour, non è la fine del mondo. Ho anche un Peavey Milestone, abbastanza economico (copia del Jazz), che ho usato durante le registrazioni per ottenere un suono più rock. Suono anche un po’ di chitarra in studio e possiedo una De Armond (una specie di copia della Les Paul) e una Strat. Per le registrazioni in studio amo ancora il mio vecchio Shaftesbury Duo-Fuzz, ma può essere difficile ottenere un suono chiaro suonando dal vivo. Così utilizzo un pedale Yamaha digitale per creare la distorsione. Anche se non possiede quel tipico bel suono fuzz, è molto più facile da controllare quando l’acustica della sala da concerto non è perfetta. Gli altri pedali che uso frequentemente dal vivo sono Boss Octaver e Flanger. Ho anche un fuzz Facelift, un wah-wah Colorsound e diversi vecchi flanger e phaser analogici come lo Small Stone e il Big Muff. Al momento il mio favorito overdrive e distorsore da studio è un terribile vecchio mixer per microfono della Maplin, che in realtà è leggermente difettoso, ma che suona in modo sorprendente quando attivo l’overdrive nel canale microfono con la chitarra o con il basso. Nel mio studio di registrazione utilizzo un computer con scheda audio Roland UA100 esterna, che ha molti degli soliti effetti Roland preconfezionati, come l’Hexa Chorus, che uso spesso. Ma per suonare il basso dal vivo, preferisco mantenere gli effetti al minimo: occasionalmente il fuzz, il flanger e l’octaver. Anche se spesso non utilizzo neanche un effetto. Dipende tutto dal tipo di musica che suono».
Mi sembra di capire che quindi non usi molte attrezzature digitali.
«Solamente in fase di registrazione».
Molti strumenti sono cambiati rispetto a quando tu hai iniziato a suonare. Un grosso cambiamento di mentalità è avvenuto nel passaggio dall’analogico al digitale, e mi riferisco soprattutto alla tecnica dell’hard disk recording. Come hanno inciso queste innovazioni nel tuo modo di pensare la musica?
«Non credo che queste cose abbiamo cambiato il mio modo di concepire la musica. Sono sempre stato interessato alla sua creazione attraverso supporti tecnici come i registratori a bobina o attraverso l’utilizzo dei loop per mezzo del lavoro sui nastri. Le nuove tecnologie hanno reso più facile e più veloce creare lo stesso tipo di musica che ho sempre avuto in testa».
Uno dei lavori che ho sempre apprezzato è stato il tuo 1984, in cui penso che siano presenti molte di quelle idee sulla manipolazione del suono, tipiche degli anni ’70. Il basso, in particolare, ha in quel disco un timbro molto profondo. Era un suono naturale o lo avevi processato in qualche modo?
«In quel disco ho fatto tutto il possibile per cambiare i suoni: ho accelerato i nastri, li ho rallentati, li ho fatti girare in senso inverso, ho creato sovrapposizioni di piste. Ho anche usato sul basso un pedale che si chiamava TootleBug e che era uno dei primi pedali analogici per il cambio d’ottava. Per 1984 avevo cominciato a comporre alcuni temi minimali e degli spazi dentro i quali ho aggiunto diverse parti di basso scritte e improvvisate. Poi ho inserito effetti o strumenti strani, utilizzati in modo assolutamente inconsueto, facendo spesso ricorso ai loop. Ho invitato poi altri musicisti a suonare con me, come John Mashall che ha suonato la maggior parte delle percussioni. In alcuni dei pezzi più lunghi, quelli con dalla dimensione quasi psichedelica, ho rallentato le tracce che contenevano i piatti della batteria, per evidenziare quella sensazione ruvida ma anche molto fluttuante».
Il tuo basso distorto ha caratterizzato in modo inconfondibile il sound dei Soft Machine. Allora ti piaceva usare spesso la distorsione?
«Sì, nella gran parte delle composizioni. Mike Ratledge mi suggerì di usare il fuzz perché stava scrivendo dei pezzi nei quali aveva bisogno che il basso avesse una forte identità per sostenere una linea in senso contrappuntistico, ossia che avesse una pari importanza rispetto all’organo, e non quei soliti accompagnamenti tipici del basso, tipo “bom-de-bom”. Poi ho usato la distorsione anche per gli assolo di basso, dal momento che il suo suono naturale non riusciva a ritagliarsi uno spazio tra tastiere e batteria. Quando ognuno nel gruppo suonava a pieno volume, c’erano all’incirca cinque note in cima al manico del basso che potevano considerarsi udibili. Ad ogni modo, preferivo usare il fuzz in modo delicato nelle sezioni più tranquille. All’interno di un ambiente sonoro più rarefatto il basso con il fuzz può essere sentito in tutti i suoi registri, fino alle note più basse, ed è molto più espressivo».
Parlando di bassisti, chi sono stati i tuoi modelli e quale musica ascoltavi quando hai iniziato?
«Ho iniziato a suonare il basso ascoltando rhythm’n’blues: Chuck Berry e cose di quel tipo, ma anche gli Shadows. Le parti per basso di questo gruppo sono state le prime che ho provato a tirare giù. Jet Harris degli Shadows è stato per me un modello molto importante, credo che sia stato il primo musicista ad avere un’influenza concreta sul mio modo di suonare. Poi ho iniziato a interessarmi al jazz: in particolare ascoltavo Charlie Haden assieme a Ornette Coleman, ma anche gran parte del jazz moderno di allora come Charles Mingus, Percy Heath, Ray Brown, Paul Chambers, Ron Carter. Poi, non appena ho conosciuto Coltrane, sono rimasto colpito dalle linee di basso a bordone dei suoi contrabbassisti come Reggie Workman, Jimmie Garrison, Steve Davis, Art Davis».
Al momento quali bassisti consideri interessanti e, in generale, quali musicisti?
«Credo che il mio attuale modo di suonare sia maggiormente influenzato dai contrabbassisti che eseguono jazz acustico, piuttosto che dai bassisti elettrici. Per questo motivo continuo a preferire i miei favoriti di un tempo. Per quanto riguarda gli altri strumenti devo riconoscere che gente come Elvin Jones, a suo tempo batterista di Coltrane, continua ad essere un prodigioso strumentista, perfino a settantaquattro anni. Il suonatore di tablas Anundu Chatterjee è altrettanto splendido nel suo stile impeccabile. Ma ci sono molti altri musicisti che ammiro sinceramente come il chitarrista francese Patrice Meyer, o i sassofonosti Pierre-Olivier Govin e Simon Picard. Ultimamente mi piace ascoltare diversa musica greca e balcanica. Trovo che i suoni e le atmosfere che questi musicisti sono in grado di produrre siano davvero speciali».
Prima hai fatto cenno al tuo lavoro sui nastri magnetici, pratica che è iniziata all’interno di ambiti legati alla ricerca fonologica. Tu da chi hai imparato a manipolare i nastri, dai Beatles o da Terry Riley?
«Ho imparato da Daevid Allen. Lui aveva lavorato con Terry Riley nei primi anni ’60 ed ebbe una fortissima influenza sulla mia maturazione musicale, sia per quanto riguarda trattamenti come quelli sui frammenti di nastro magnetico, sia in generale sul mio modo di suonare. In effetti la prima volta in cui mi sono trovato a suonare con qualcuno è stato proprio con Daevid e Rober Wyatt».
A proposito di Wyatt, che è stato tuo compagno nei Soft Machine, assieme a Dean e Ratledge. Come mai la sua musica ad un certo punto non riusciva più a combinarsi con quella più marcatamente jazz-rock del gruppo?
«In realtà la ragione per cui Wyatt lasciò i Soft Machine aveva più a che fare con reali differenze tra le nostre personalità piuttosto che con diverse visioni musicali. Semplicemente non eravamo più amici…».
La tua ultima collaborazione con Wyatt risale al suo disco Shleep. Avete altri progetti in cantiere?
«Sì, di tanto in tanto gli mando un po’ della mia musica per vedere se può trovare qualcosa che gli possa piacere, per cantarci o suonarci sopra. Recentemente mi ha rispedito alcuni pezzi in cui suona la cornetta sopra alcuni loop che ho registrato per lui».
Prima di lasciarci volevo chiederti se nei programmi dei Soft Works c’è anche una tournée in Italia?
«Mi piacerebbe davvero. Sono almeno dieci anni, o forse più, che non suono in Italia. L’ultima volta credo che sia stato nell’ambito del progetto Oh Moscow di Lindsay Cooper a Imola. Mi piaceva tantissimo quando venivo dalle vostre parti con i Soft Machine: grande pubblico e cibo fantastico».
C’era da scommetterci!
da «Strumenti Musicali» n260, gennaio 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli
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