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Piccolo è bello! A fronte di eventi sempre più magniloquenti e dispersivi, vergati a suon di bollini “city”, una stagione come quella di Sentieri Selvaggi riesce ancora a donare alla musica un respiro più confortevole – specie alla musica contemporanea che vive di soffi flebili, a tratti quasi impercettibili. Insomma qui si sente il bisogno di concentrarci dentro una piccola quanto immersiva dimensione acustica in cui null’altro che suono viene emanato. Sembra banale dirlo, ma ultimamente i grandi eventi hanno sempre meno a che fare con la dimensione del Suono con la “S” maiuscola. In virtù di questo, ci auguriamo che l’ensemble di Carlo Boccadoro & C. continui a rimanere legato a questo modo di proporre musica: raccolto e depurato anche da tutti quegli eccessi cerimoniosi che, ahinoi, ritroviamo spesso altrove.
Quinto appuntamento allora della stagione 2018 di Sentieri Selvaggi [am aveva già parlato del concerto di apertura dedicato a Turnage, Donatoni e Adams] con un monografico dedicato a Fausto Romitelli, misteriosamente intitolato “Amok Koma”, composizione dell’autore goriziano non inclusa però nell’impaginato scelto da Boccadoro, che opta per un percorso cronologico che vuol dar ragione dei trascorsi spettralisti di Romitelli, per poi metterne in evidenza l’emancipazione da quei modelli e l’individuazione di un percorso personale che ne ha fatto uno degli autori recenti il cui stile non solo è tra i più riconoscibili, ma è anche in grado di dettare una linea alle giovani generazioni.
Si apre quindi con La sabbia del tempo (1991), composizione che si snoda a partire da un accordo di MI bemolle eseguito alla tastiera. Come ha modo di illustrare Boccadoro nelle sue sempre efficaci introduzioni, tutti gli altri sei strumenti (flauto + basso, clarinetto + basso, violino, viola, violoncello) entrano in relazione armonica “spettrale” con quella triade iniziale (procedimento che rimanda alla memoria il noto incipit di An Index of Metals). L’implacabile scorrere del tempo viene reso da Romitelli attraverso una duplice visione contrapposta: da un lato la dilatazione resa appunto dall’idea armonica che sta alla base del pezzo e che si sviluppa quasi per autogenerazione come un grumo di frattali, dall’altra lo scandire metronomico che sembra voler catturare invece quella dimensione cosmica del tempo in maniera quasi goffa e limitante.
Con Due domeniche alla periferia dell’impero (1996-2000, per flauto, clarinetto, violino, violoncello) si entra nel periodo d’oro romitelliano, quello che, dopo aver acquisito e utilizzato il grimaldello spettralista utile per dissipare ogni tentazione da vecchia avanguardia, Romitelli si lancia nel suo universo sonoro come il virus dentro un organismo biologico vivo (sua la felicissima definizione di “compositore come virus”). Corpuscoli di suono vagano nell’aria come quel particolato che fluttua, reso visibile da un raggio di sole, languidamente noioso come certe domeniche metropolitane oppresse da quello spleen/scazzo che sembra suggerirci che le cose capitino da un’altra parte.
Chiudono la serata le tre lezioni del capolavoro Professor Bad Trip (1998-2000), una vera e propria summa del linguaggio romitelliano, analogamente all’altro capolavoro, il suddetto Index. Di Henri Michaux, Francis Bacon e degli stati allucinatori a cui si ispira questo ciclo se ne sa già abbastanza. L’elemento distorsivo che porta a una pluralità di percezioni determina un percorso che si snoda attraverso un’intersecato panorama che tocca memorie di spettralismo, tecno, metal, corrieri cosmici ed elettronica colta. Il magma è polisemico, a tratti desolato e a tratti in forma di caos che esplode in distorsioni di chitarra o basso elettrici, pulsazioni semi-regolari di grancassa rock e colpi di crash con inviluppo stoppato. Una composizione complessa che esige, oltre al resto, una frequentazione di generi e un’apertura mentale non ancora esattamente generalizzata.
Ai Sentieri Selvaggi non manca certamente apertura e preparazione (frequentazioni nemmeno), quindi l’approccio è certamente quello giusto. Mancano forse, specie nel Bad Trip, quelle trasparenze necessarie a rendere il ventaglio romitelliano molto più in filigrana. Il suono di certi strumenti (chitarra, basso, percussioni) rimane troppo distante, quello di altri, come la tastiera, un po’ enigmatico, mentre archi e flauto sono sempre eccessivamente in primo piano, carichi di un riverbero fin esagerato. Nonostante le apparenze la musica di Romitelli è un cristallo molto delicato che richiede, forse più di altre, una spasmodica attenzione all’equalizzazione, pena la perdita di quella filigrana. Ottimo comunque l’ensemble nel suo complesso e, nel particolare, con le cadenze della violoncellista Aya Shimura (pur nella perplessità anche qui di scelte timbriche che spingono a un eccesso di saturazione), eletta a furor di popolo regina della serata da parte di un pubblico molto coinvolto in un evento che per i romitelliani può anche definirsi “rituale”, mentre per tutti i semplici appassionati di musica un “bel concerto come sempre dovrebbe essere”.
aprile 2018 © altremusiche.it
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