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Di un certo tipo di rarefazione e di focalizzazione attorno a un piccolo (ma intenso) nucleo, ne avevamo avuto abbondante esperienza attraverso l’ascolto di suoni provenienti da altre latitudini rispetto a quella di questo Bestiario, le cui coordinate geografiche rimandano direttamente alle nostre Puglie. Quindi, in virtù del principio di spaesamento che dovrebbe stare alla base di ogni discorso artistico che reputiamo tale, l’aggiramento dello stereotipo che vede il Sud caldo e passionale vs il Nord freddo e calcolatore, sembra un’impostazione assolutamente salutare, se non altro per provare a scrollarci di dosso una piccola quantità di luoghi comuni tra le tonnellate che ci opprimono.
Ma il Bestiario di Francesco Massaro potrebbe essere uno di quei progetti che tentano anche di liberarsi da quell’ancor più pesante fardello della calligrafia jazz da cui molti musicisti non riescono più a districarsi: sia nell’improvvisazione di derivazione free, sia – e nemmeno a parlarne – nel mainstream di derivazione hard o be bop. Tutto, dal nostro umile punto di osservazione, sembra ormai ristagnare in una pozza a cui mancano affluenti.
Qui, invece, sembra di scorgere qualcosa. Un ergersi musicale da una tabula rasa, una piccola rinascita dopo anni di rimescolamenti di una zuppa che ha perso il suo sapore, anche all’interno di quel jazz meridionale che a furia di giocare alla Commedia dell’arte si è ritrovato chiuso in un chiosco di souvenir.
Beninteso, anche il Bestiario rimescola. Ma lo fa sbarazzandosi degli ingredienti di base. Basta hamburger modali a base di blue notes, basta acide raschiate free, basta soffritti dal retrogusto paesano. Tecniche estese, suoni inarmonici, profili melodici aperti, desunti anche da orizzonti paralleli, pur nel ripiegamento all’ambito di appartenenza, cioè quello della libera improvvisazione. Il fluire modale del volo melodico di Messiaen, il post-spettralismo romitelliano, il drone mistico scelsiano, l’immobilismo armonico del tintinnabulum pärtiano, la dilatazione temporale feldmaniana. Queste alcune coordinate evocate o suggerite dall’ascolto di “Meccanismi di volo” (Desuonatori, )des_002(, 2017) e del precedente “Bestiario marino” (Desuonatori, des_007, 2015) di Massaro (sax baritono e clarinetto basso), accompagnato e musicalmente sostenuto da Mariasole De Pascali (flauti), Gianni Lenoci (pianoforte, piano preparato, fender rhodes, radio, toys), Michele Ciccimara (percussioni varie). Con l’autore del progetto cerchiamo di entrare nel “cuore della bestia” a partire dalla denominazione della ditta.
«Dare un nome a qualcosa è sempre limitarne il senso, il campo d’azione, equivale ad assegnargli un destino, quindi è un processo che determina, su più livelli, sottrazione di energia, e conseguentemente materia; ma avevo bisogno di un nome che si svincolasse da questa logica, che vi sfuggisse anche guittamente.
“Bestiario” si presta a questo, è un nome che porta con sé tante informazioni, non può per sua natura essere concluso. Il “genere letterario” del bestiario rappresenta una delle produzioni più affascinanti della letteratura occidentale. Ma non solo, in tutte le letterature ne troviamo esempi, basti pensare alle varie mitologie. I livelli di lettura quindi sono molteplici: alle descrizioni oggettive se ne affiancano altre simboliche o allegoriche, agli animali reali vengono accostati bestie fantastiche, a volte per metà umane. Insomma una materia organica vitale, pronta al cambiamento e alla metamorfosi come voglio che sia la musica che suoniamo.
Questi alcuni dei motivi per cui ho deciso di intitolare così il progetto e soprattutto il gruppo. Insieme a me ci sono Mariasole De Pascali, Gianni Lenoci e Michele Ciccimarra. In “Meccanismi di Volo”, che è il nostro secondo disco, in un paio di tracce abbiamo accolto anche due chitarristi elettrici, Adolfo La Volpe e Valerio Daniele».
La prima cosa che ho pensato – ma senza alcuna malizia o retropensiero – era un ironico riferimento alla scena jazzistica di oggi.
«No, nessun riferimento, nemmeno scherzoso. Trovo che l’attuale scena jazzistica italiana nasconda delle perle di grandissimo valore. Certo non c’è molto spazio per esprimersi, pochissimi i festival che possono o vogliono “scommettere” su certi artisti, e lo spazio va conquistato a furia di sacrifici. Per fortuna qualcuno trova il coraggio per restare o la forza per resistere. Un nome su tutti: Marco Colonna, che incarna questo spirito di lotta sul territorio e per il territorio, e che cerca di creare un tessuto connettivo tra le varie realtà».
All’ascolto del vostro ultimo progetto i primi musicisti a cui ho pensato sono due compositori molto lontani dal jazz come Morton Feldman e Arvo Pärt, per merito di un’evidente processo di sottrazione che credo caratterizzi in modo pregnante il tuo modo di comporre. Mi confermi un ruolo di questi due autori nell’ispirazione del tuo progetto?
«Assolutamente sì, e non solo Feldman (che, per inciso, è oggetto di studio approfondito da parte di Gianni Lenoci) e Pärt. Sono molto interessato alle prassi e al suono delle musiche contemporanee, anche se cerco di trarne dei procedimenti personali. Dico prassi e suono perché, evidentemente, pratiche estremamente diverse possono offrire risultati sonori molto simili, o al contrario una partitura può generare sonorità assolutamente opposte. Le musiche del Novecento ci offrono uno sconfinato campionario di possibilità.
Ho una serie di cose sulle quali sto lavorando da tempo, alcune opere che sto a mio modo scandagliando: Laborintus II di Luciano Berio, alcuni concerti di Bruno Maderna, il Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen, e la musica di Fausto Romitelli. Ovviamente quello che faccio non è direttamente riconducibile a questi lavori, né si chiude qui il cerchio. C’è il jazz, l’improvvisazione libera, le musiche popolari e tanto altro ancora, per fermarmi al solo mondo sonico».
Mi fa piacere che tu abbia citato composizioni come Laborintus II, il Quatuor di Messiaen e un autore che amo molto come Romitelli. Normalmente i jazzisti (o forse solamente quelli meno avventurosi) hanno riferimenti più convenzionali (ormai divenuti tali) come Davis, Coltrane o anche Ornette. Ci spieghi le ragioni di questo orientamento e in che modo hai intenzione di lavorare su quei materiali.
«Il fatto che usi l’improvvisazione come prassi principale nei miei lavori e che la mia formazione sia fortemente legata al jazz non fa di me un “jazzista”, non mi sento tale. Il jazz è una musica che amo e che conosco abbastanza bene, così com’è per altre musiche, ma non ascolto, studio, pratico solo quella. Mi sento libero di appartenere a una categoria più grande e di scorrazzare liberamente a caccia di farfalle.
In questo periodo sono attratto in maniera particolare da alcune cose, non solo per il risultato sonoro, ma anche per aspetti più tecnici legati alla scrittura. In Laborintus II c’è una strettissima relazione tra scrittura e improvvisazione anche di matrice jazzistica (ne esiste una versione pubblicata per Harmonia Mundi nel 2000 in cui suonano Jean-François Jenny-Clarke, Michel Portal e Bernard Lubat tra gli altri), ma tutti i musicisti sono chiamati in qualche modo ad improvvisare, è una partitura estremamente affascinante.
Una cosa simile accade anche ad esempio nel secondo Concerto per oboe e orchestra di Maderna. Di Messiaen invece mi interessa moltissimo, oltre che al sistema armonico/ritmico (uso spesso i suoi modi a trasposizione limitata), la distribuzione dei materiali: quello che nelle musiche d’uso si chiama “arrangiamento”. Nel Quatuor ci sono un paio di cose che al primo ascolto, diversi anni fa, mi stupirono, a partire dal solo di clarinetto ne l’Abîme des Oiseaux e dall’unisono della Danse de la fureur, pour les sept trompettes. Di Romitelli amo invece il modo di entrare nel timbro, di scardinarlo e di ricostruirlo. Amo il suo rigore, la trans-culturalità, oltre che la maestria nella scrittura per chitarra elettrica. Ma è riduttivo ricondurre quello che faccio, o meglio, che vorrei fare, solo a questo. C’è tantissima musica di ogni epoca, c’è letteratura, cinema, arti figurative. Sono onnivoro e tutto ciò che mi piace contribuisce al mio lavoro».
Quanto quindi nel Bestiario si muove attorno all’improvvisazione e quanto attorno alla pagina scritta?
«La fortuna di “guidare” un gruppo così, penso capiti raramente. Innanzi tutto perché è impossibile guidarlo. L’apporto personale di Gianni, Michele e Mariasole è fondante: non sono esecutori della musica che “scrivo”, ma ne sono essi stessi autori, arrangiatori, traviatori, distruttori, ri-creatori. È esattamente su questo crinale che si pone la musica del Bestiario. Ammesso che esista una reale differenza tra scrittura e improvvisazione – al di là delle definizioni tradizionali, ma anche delle divagazioni postmoderniste – quello che suoniamo ha un carattere di mobilità e liquidità intrinseco, genetico. Da parte mia mi occupo di fornire al quartetto delle tracce da seguire, o da dimenticare, delle indicazioni da tradire, cerco di innescare dei processi che lascio liberi di compiersi, offro una sorta di cartografia – più che delle mappe – che consiste in appunti tematici, progressioni armoniche, indicazioni verbali, partiture grafiche, piccoli giochi di ruolo».
Il musicista del Bestiario che conosco meglio è Gianni Lenoci. Sembra che, proprio in merito a una certa condivisione di orizzonti poetici, siate molto in sintonia. Sta nascendo qualcosa in Puglia?
«Ho conosciuto Gianni nel 2000, quando mi sono iscritto al suo corso di Jazz nel Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, nonostante sia stato suo alunno per soli 5 anni, ho frequentato la sua classe per più di un decennio. Devo a lui la maggior parte della mia formazione poetica e professionale. La sua classe in Conservatorio è un vero e proprio laboratorio, sin dalle primissime lezioni sono stato messo di fronte a me stesso, e su questo, come tutti i miei colleghi, ho lavorato. Le sue lezioni sono pantagrueliche, sia per la mole, che per la qualità delle informazioni. Si passa da Davis a Monteverdi, da Feldman ad Antonioni, da Lacy a Deleuze anche con qualche virata rocambolesca su Sharon Stone senza soluzione di continuità. Nel 2001 mi ha coinvolto in una registrazione, per me il primo lavoro discografico, e da quel momento anche il nostro rapporto si è ramificato.
Ovviamente non sono il solo ad avere fatto questo percorso, Gianni è un musicista e un insegnante generosissimo, e negli anni ha formato decine di musicisti interessantissimi. Succede oggi che molte realtà in maniera più o meno diretta siano legate alla sua attività didattica. Solo per citarne una il collettivo SubArdente, gruppo di improvvisatori nato nel 2017, e che, oltre al sottoscritto, comprende una serie di musicisti (ma non tutti) che sono stati o sono tutt’ora iscritti alla classe di jazz di Monopoli, pur non essendone assolutamente emanazione diretta.
Ma qui succedono anche altre cose: ad esempio il festival Contrattempi, organizzato a Noci da Vittorino Curci e Gianni Console, un importantissimo meeting annuale di improvvisatori, ma vorrei ricordare anche l’attività produttiva di Desuonatori e molto altro ancora».
E se alcuni territori a Nord del continente sembrano tropicalizzarsi alla ricerca del tepore, a Sud si cerca refrigerio in sonorità inaspettatamente diafane e crepuscolari. L’importante per noi è continuare a perdere l’orientamento tra contesti musicali disseminati qua e là all’interno del labirinto.
2018 © altremusiche.it / Michele Coralli
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