- 16 film per capire l’Africa (2 per non capirla) - Dicembre 9, 2024
- Alla ricerca dell’egemonia culturale perduta: da Claudio Villa a Luigi Nono - Giugno 28, 2024
- AUTOBAHN 9: «Verso i Mari del Sud» - Maggio 7, 2022
Nelle motivazioni redatte dal direttore artistico di Biennale Musica Ivan Fedele – a margine della consegna del Leone d’oro alla carriera 2019 al compositore inglese George Benjamin – il segno anche di un’epoca musicale come quella che stiamo vivendo.
Queste le parole conclusive del giudizio di Fedele:
Autore versatile, perfettamente a proprio agio in ogni ambito e in ogni genere musicale, nelle sue opere teatrali Benjamin ha saputo realizzare una magistrale operazione di “raccordo” con il passato.
Versatilità nell’uso di linguaggi diversi quindi, ma anche comfort all’interno di ambiti o forme in cui spesso, specie nella musica del passato, un certo grado di “specializzazione” ha sempre, per certi versi, “incastrato” molti compositori. Ebbene anche oggi questo succede, specie all’interno del teatro musicale – ambito per altro fervido di affascinanti contraddizioni – a cui Benjamin ha dedicato la sua attenzione in tre opere ben distanziate tra loro dal punto di vista cronologico: Into The Little Hill (2006), Written on Skin (2012) e Lessons in Love and Violence (2017). Oggi chi crea musica deve saperlo fare senza troppe remore nei confronti del trinomio presente/passato/futuro, ma soprattutto con un buon rapporto con il nuovo pubblico che si affaccia alle musiche contemporanee di ascendenza colta – a causa dello svuotamento propulsivo di molti altri generi. E Benjamin dimostra di sapere fare tutto questo in modo egregio e secondo una logica e una visione che potremmo definire postmoderne.
Ma che modo procede Benjamin? Due le evidenze che maggiormente saltano ai nostri occhi.
La prima: lo sguardo convinto al passato pre-Darmstadt, in particolare attraverso un deciso orientamento a un neo-impressionismo di gusto anglo-francese. Essere stati allievi di Olivier Messiaen, avere sviluppato un proprio pensiero a partire da quel mondo, può essere sicuramente un buon input nell’inquadramento critico della sua musica, ma non deve, per forza diventare una giustificazione per delineare un percorso che torna spesso su vie già note (tanto per dirne uno: Cage è stato allievo di Schoenberg, ma le loro strade sono state ben distinte).
La seconda: congelamento e stoccaggio del presente musicale altrove. Grandi visionari come Tommaso Landolfi hanno dimostrato di poter raccontare eventi reali come la Resistenza, immergendola in atmosfere magiche e surreali. E Benjamin, in opere come Written on Skin (libretto di Martin Crimp), abbraccia una vertigine gotica molto stilizzata per raccontare la storia di tesissimo rapporto di maltrattamenti matrimoniali dal tragico finale.
Ed è proprio con quello che probabilmente si candida a diventare il capolavoro teatrale di Benjamin che Biennale Musica 2019 si presenta al suo pubblico. L’opera non è una novità assoluta, essendo già stata presentata al Festival di Aix-en-Provence nel 2012. La forma di concerto per la quale si opta a Venezia indebolisce certamente la forza (leggi la violenza) della vicenda e obbliga gli ascoltatori a uno sforzo in più. La scrittura molto asciutta di Crimp riesce però a prendere per mano il pubblico, scena dopo scena, aiutatandolo anche con una non banale commistione tra discorso diretto e indiretto, che i personaggi adottano a mo’ di didascalia, quasi per illustrare le azioni che loro stessi compiono. Ad esempio può capitare che il controtenore Boy dica: “What is it you mean, says the Boy”, e così via. Sembra in altre parole che la struttura drammaturgica sia stata concepita in modo da poter reggere anche l’eventualità di un allestimento in forma di concerto.
Tre le parti che si suddividono quindici scene animate da sei personaggi: il “dominus” The Protector (Christopher Purves, già presente nel medesimo ruolo ad Aix), la soggiogata e recalcitrante moglie Agnès (Georgia Jarman nel non facile compito di rinnovare il ruolo che fu di Barbara Hannigan), il miniaturista-editor, nonché amante platonico di Agnés, the Boy (James Hall, che ha un doppio ruolo anche come uno dei tre angeli), più la sorella di Agnés e il marito – nonché angeli anch’essi (Victoria Simmons e Robert Murray). Trama lineare che culmina con l’omicidio da parte del Protector del giovane rivale e l’offerta del suo cuore in pasto ad Agnés, la quale, ignara, lo mangia, venendo obbligata anche a commentarne il gusto.
La vicenda drammatica, ispirata liberamente alla leggenda del trovatore Guillem de Cabestany, è come, ahimé, le cronache quotidiane riportano, quanto mai attuale e scottante. La violenza domestica supera ogni immaginazione e Benjamin ha un’attenzione nei confronti del quadro psicologico e drammatico davvero molto intensa, tanto che il profilo musicale ed espressivo del personaggio del Protector appare memorabile quasi quanto quello del Wozzeck berghiano: forza, carica espressiva, “potere assoluto” anche musicale del baritono nei confronti del femmineo e debolissimo controtenore, drammaturgicamente schiacciato anche dall’amante Agnés.
Se uno come Britten con il suo Turn of the Screw ha dato notevole saggio di come la musica sia in grado di rappresentare certi baratri della mente, anche Benjamin dimostra di non essere da meno nel creare significanze musicali attorno a personaggi in bilico tra ragione e follia. A differenza però del capolavoro di Britten, il suo “nipote” musicale opta per una compattezza di dimensioni che, a nostro parere (ma non solo nostro), può dare l’impressione di circoscrivere troppo le parti orchestrali, che potrebbero invece avere maggior peso nell’economia della rappresentazione.
Ma anche questa è una scelta dettata dalla modernità: 95 minuti per un’opera contemporanea è senz’altro oggi la durata giusta. Andare oltre, allungare troppo il brodo, può essere rischioso e Benjamin, forse conscio di questo pericolo, comprime tutto all’essenza di un racconto, basato per lo più sui dialoghi tra i personaggi. Certo, colori non ne mancano e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, diretta con molto scrupolo da Clemens Schuldt, riesce a mettere sulle proprie spalle quel carico di suggestioni delicate e/o fortissimi chiaroscuri che in un allestimento completo sarebbero stati evidenziati da aspetti puramente visivi.
Prendendo a prestito il titolo di quest’anno della consorella Biennale Arte, ovvero May You Live In Interesting Times, potremmo quindi senza remore inserire in questi tempi anche la musica che viene prodotta oggi, perché è del tutto evidente che musica interessante continuerà sempre ad esserci; oggi, come ieri, come domani.
Guardare avanti o guardare indietro, in altre parole, non deve essere più un tratto ideologico discriminante e pregiudiziale, perché quello che conta è la duttilità dell’arte nell’essere plasmata al fine di rappresentare in modo multiforme un presente sempre più complesso. E la musica di Benjamin, pur non collocandosi nel reparto di sperimentazione avanzata, si dimostra semplicemente, ma autenticamente, molto interessante.
ottobre 2019 © altremusiche.it
Lascia un commento