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Che le aspettative fossero tante, alla luce di un’attesa alimentata da una serie di annunci e di rinvii, era inevitabile. E che, con queste, crescessero fiducia e desiderio, anche. Se non altro perché il sovrintendente Pereira molto si è speso, annunciando con una certa enfasi che Fin de partie (il suo “figlio più caro”) è l’opera contemporanea più importante degli ultimi 50 anni e forse anche dei prossimi 30. L’attuale sovrintendente scaligero, infatti, era ancora a Zurigo nel 2006-07 quando richiese al compositore ungherese di scrivere un’opera per un calendario del 2010-11. Da quel momento una serie di cancellazioni: tra il ‘13 e il ‘15 lo stesso Pereira ci prova anche a Salisburgo e dal ‘16 alla Scala, per arrivare a questa prima, nella quale, finalmente, “il bambino” prende vita come un piccolo Frankenstein.
E la metafora shelleyana non sembra così vaga, se pensiamo che l’idea del montaggio delle parti su cui si incardina la poetica di Gyorgy Kurtág discende proprio dall’individuazione di piccoli frammenti dotati di per sé di senso compiuto, che, come dei veri e propri micro-organismi, si agglomerano per formare un corpo volutamente incerto, claudicante o paralitico come i personaggi beckettiani di Finale di partita. In altre parole quello che, tanto per fare un esempio, compone l’ampia raccolta pianistica dei noti Játékok per pianoforte, qui deve trovare un più ampio sviluppo per comporre, antiteticamente rispetto al micro-punto di partenza, una macro-forma dall’articolazione drammaturgica complessa.
La scelta che Kurtág decide di prendere è quella di segmentare la pièce teatrale in quadri focalizzati attorno ai momenti prescelti, ovvero quei tagli considerati pregnanti dal compositore (autore qui anche del libretto). Oltre a dare un respiro diverso all’azione, l’articolazione in quadri consente dei cambi scena che “muovono” quella cornice entro cui i personaggi vengono collocati.
E qua possiamo già cogliere un limite. L’azione scenica – per quanto suggestiva, sia per merito di una scenografia geometricamente semplice ma molto azzeccata, sia per la pulizia delle luci che coglie nel segno – rimane sempre molto statica in virtù ovviamente dei vincoli scenici del testo originario. Però, mentre il testo beckettiano sprigiona una forza emotiva che aggredisce lo spettatore – quello ovviamente capace di farsi cogliere da certe suggestioni –, agitando quindi la sua interiorità attraverso una serie di gesti e frasi quotidiane elevate al più puro senso di inutilità esistenziale, la resa musicale di quel testo perde nel trasferimento sul piano sonoro molta di quella sua forza interiore, riuscendo – a parere nostro – solo inizialmente a reincarnare il peso del vuoto esistenziale dei protagonisti di quella storia.
Ebbene, non che questo piano si dimostri del tutto inefficace. Anzi: per i primi tre quadri l’opera assume contorni quasi epici, di non fugace ispirazione wagneriana, come nel prologo di Nell (Hilary Summers) e nel duetto nei barili di petrolio con Nagg (Leonardo Cortellazzi). Ma anche berghiana: Clov (Leigh Melrose) alias Wozzeck.
I brevissimi interventi musicali di apertura dei primi quadri poi lasciano pensare piccoli concentrati (o contratti) momenti di grande musica (guidata in modo esemplare dall’ottimo Markus Stenz). E così è, perché la penna di Gyorgy Kurtag è estremamente raffinata. Proprio in relazione a quella capacità di costruire mosaici a partire dai piccoli tasselli, sembra che il tracciato, per quanto inevitabilmente autonomo, possa davvero riuscire a tenere alta l’attenzione. Ci sono episodi che catturano anche musicalmente quell’ironia crudele, tipica dell’opera beckettiana come il risveglio forzato di Nagg da parte di Clov con l’orologio a sveglia più volte infilato nel bidone accanto all’orecchio del vecchio padre di Hamm: un’enfasi che combina effetto sonoro (xilofono ribattuto) e azione scenica (gestualità clownesca).
Funziona anche la pantomima iniziale in cui lo stesso Clov, unico personaggio ad avere la possibilità di muoversi, guarda fuori dalle due finestre, aiutandosi con una scala: sebbene la sua risata amara suoni troppo realisticamente come una “risata” e non come quel verso stupido e grottesco, quasi come di una cornacchia.
Ecco, sono questi alcuni piccoli elementi che sembrano darci il senso della distanza tra il cosiddetto “teatro dell’assurdo” e il “teatro del corretto”. Ed è su questa dicotomia che si gioca, a nostro parere, la “partita” tra Beckett e Kurtág. Là dove l’opera dell’irlandese viene sostenuta da un testo dall’inarrivabile potenza, qui, nella sua conversione in musica, troppi sono i momenti uguali a se stessi: una certa simmetria tra i quadri e, non da meno, gli scarsi elementi di cambiamento tra un quadro e l’altro. Dov’è finito, per esempio, il cane di pezza?
E poi. Per quanto l’iguana-Hamm (il ciclopico Frode Olsen) faccia di tutto per riempire dei vuoti con moti energici delle braccia e lo stesso faccia Clov con il suo incedere claudicante, dov’è quel “giro del mondo” che avrebbe aggiunto un’interessante variante di movimento?
Inevitabilmente, nel computo delle oltre due ore complessive, la forza iniziale di Fin de partie perde progressivamente vigore, trascolorando, purtroppo, in un costante, ma inesorabile, indebolimento dello spettacolo. Forse il limite di Kurtág sta proprio nell’essersi voluto mettere sullo stesso piano dello scrittore, volendolo cioè equiparare in termini di peso drammatrugico. E invece, banalmente, un alleggerimento dell’opera nella direzione di uno spettacolo più breve e raccolto avrebbe potuto davvero aspirare a diventare il capolavoro lirico di questi anni. Ma a questo percorso, sembra che manchi la capacità di trovare una strada che rinnovi la suggestione da cui molto efficacemente era partita. Suggestione che parte dall’enigma e da quei salti logici che fanno di Beckett e della sua opera, ancora oggi un caposaldo della modernità e, con ogni probabilità, che farà ancora di entrambi un punto di riferimento per i prossimi non 30, ma 300 anni.
novembre 2018 © altremusiche.it / Michele Coralli
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